Maurizio Maggiani: Quanta innocenza nei ragazzi dell’Olimpiade

17 Febbraio 2006
Non mi sono mai perso un Sanremo, non mi sono mai perso un’Olimpiade. Da Nilla Pizzi e Livio Berruti ai giorni nostri. Perché mi piacciono le canzoni, perché mi piace l’atletica, perché sono di gusti volgari (per quello che propriamente significa: gusti contadini). Perché sono eternamente affascinato dallo spettacolo popolare, dalla nuda schiettezza dell’umano che riesce a trapelare dalle cortine più pesanti, quando è il popolo che si espone allo spettacolo di se stesso, calcando le ribalte di cui non sarà mai - nonostante tutto quello di cui possono illuderlo - protagonista, ma spaesato ospite, fiducioso oltre ogni prudenza di poter questa volta, e se non questa una prossima, arrivare primo in una gara dove i premi a lui destinati non potranno che essere di consolazione. I primi premi, quelli che fanno ricchi e potenti davvero si assegnano e si spartiscono fra altri, dietro le quinte, ben al di là delle piste e dei campi.
Sentirò dunque San Remo tra non molti giorni. Sentirò, perché Sanremo per me è sempre stato e sempre sarà la radio. Ho visto - perché l’Olimpiade, invece, è sempre stata per televisione sin da Berruti, quando la televisione l’andavo a vedere all’oratorio - l’inaugurazione dei Giochi Invernali. Come sempre lo spettacolo che è valso vedere, quello che cercavo, è la sfilata. Il resto è il sovrappiù. Sul sovrappiù, a Torino si sono lasciati andare oltre ogni previsione. Tanta roba così e così ‟espressiva” non l’ho vista nemmeno nel film sull’Olimpiade di Berlino del 1936; e se devo essere proprio sincero, mi pare che Leni Riefenstahl la Pininfarina di quei giochi ha dimostrato qualcosa in più in fatto di buon gusto ed eleganza. Ma lasciamo perdere: è questione di gusti e un bel po’ di gente, di popolo, con cui ho parlato lo ha trovato un gran bello spettacolo.
Mi permetto soltanto di pensare che l’accensione della sacra fiamma olimpica non dovrebbe assomigliare così poco appropriatamente al complesso e invasivo processo di accensione di un missile intercontinentale; e se, come credo, l’alimentazione dell’imponente ciminiera a cinque marmitte è affidata al metano, voglio sperare che l’amico Putin non intenda cogliere l’occasione per mostrare al mondo intero quanto sia prezioso il suo gas. Mi permetto pure di pensare che se è così commovente il canto di una bimba che intona l’inno nazionale, forse si dovrebbe impedire che possano mai sgorgare dalla bocca di una creatura innocente le parole ‟...siam pronti alla morte...”. No, un bambino è pronto alla vita; ma se è politicamente corretto cambiare radicalmente la nostra Costituzione, pare invece che cambiare le parole del nostro inno sia antipatriottico e moralmente disgustoso.
Ma la sfilata.... Tutti quei ragazzi, tutti quei visi, tutta quell’innocenza, tutta quella sfrontatezza, tutta quell’illusione, tutta quella bellezza. Tutta la povertà uzbeka infagottata in roba fuori misura, tutta la ricchezza dei francesi eleganti come damerini non bastano a fare ingoiare amaro. Perché ci sono le facce di quei ragazzi, perché leggiamo nelle loro espressioni qualcosa che val la pena di essere invidiato. Il primo grande viaggio della vita. E anche se per moltissimi tra loro sarà anche l’unico e l’ultimo, anche se questo lo sanno, mentre sfilano, e goffi salutano e abbracciano e fanno ciao e si riprendono con la telecamerina, perché dovranno pur chiamare gli amici a casa a vedere il loro sapere della sconfitta ora è altrove, dove non può far male.
I ragazzi. Anche se un bel po’ tra loro tradirà il giuramento olimpico, e si ‟doperà”, e si venderà, un altro po’ non lo farà. E ti sembra di vederglielo in faccia, e ti riempie di gratitudine per quello che faranno battendosi nel grande gioco sulla neve. Colombe, candide, colombe kirghise, irlandesi, persiane, italiane, e chi mai potrebbe crederci? persino verginiane delle Isole Vergini. Che sono pure dovuto andarmi a rinfrescare la geografia per riconfermarmi che le Isole Vergini stanno nel Mar dei Caraibi e fanno 22.000 abitanti e la capitale si chiama Road Town. Lo sanno loro e lo so io, e lo sanno tutti nell’Universo, che l’Olimpiade è da un bel pezzo un affare stretto nel pugno di ferro di multinazionali e di governi che dello spirito olimpico sono nemici elettivi.
Ricorderanno, o gli avranno rammentato, e ricordiamo bene noi tutti che nell’Olimpiade hanno fatto irruzione da un pezzo lo spirito di guerra e i morti ammazzati. Ma ora che sgambettano tutto tondo lo stadio preceduti da inverosimili damine in porcellana di Capodimonte e domani che proveranno a fare la loro gara contro un cronometro, contro un destino, contro se stessi, li guardo e li guarderò con il rispetto fidente con cui da ragazzino ho guardato farsi avanti a provarci nell’impresa impossibile i più coraggiosi e spensierati della mia e dell’altrui banda. Con l’affetto che ho per me stesso quando ricordo di averci provato anch’io qualche volta. E di come ero innocente nella mia spavalderia. Sì, se il popolo ha ancora un po’ di innocenza è tutta qui avanti a me, perché me la possa godere.

Maurizio Maggiani

Maurizio Maggiani (Castelnuovo Magra, La Spezia, 1951) con Feltrinelli ha pubblicato: Vi ho già tutti sognato una volta (1990), Felice alla guerra (1992), màuri màuri (1989, e poi 1996), Il …