Stefano Rodotà: Se lo scontro di civiltà è dentro i nostri confini

07 Marzo 2006
Lo scontro di civiltà è tra noi, e in esso si riflette la regressione culturale e politica che affligge le cose italiane. Lo dice l’"incidente", mille volte annunciato da altri atteggiamenti leghisti, che ha avuto come protagonista l’ex ministro Calderoli. Lo dice il modo in cui è arrivata in Italia la discussione, anch’essa annunciata da tempo, sui diritti in un mondo invaso dalle innovazioni scientifiche e tecnologiche, subito divenuta prigioniera di semplificazioni inaccettabili e di violenze ideologiche. Lo dice la lunga aggressione al sistema dei valori costituzionali, dei quali l’attuale maggioranza ha sempre mostrato di volersi liberare, ben al di là della stessa riforma della seconda parte della Costituzione. E altro, e altro…
Ci aggiriamo tra macerie. E la ricostruzione non sarà facile, a giudicare anche dalla decisione di entrambi gli schieramenti di ricorrere a candidature (ma chiamiamo le cose con il loro nome: elezioni annunciatissime) di persone che trasferiranno in Parlamento intransigenze e chiusure. È possibile individuare qualche modesta contromossa, che possa riportare nella discussione civiltà e dialogo, rispetto delle persone e della loro libertà?
1) Rinunciare alla nefasta invocazione della reciprocità. Quella che, tanto per fare un esempio, spinge a dire che il musulmano vedrà pienamente rispettate le proprie credenze e pratiche religiose solo quando nel suo paese d’origine vi sarà pari rispetto per i cattolici. Poiché si ama tanto riandare allo Stato liberale, bisogna allora ricordare quel che avvenne negli anni successivi all’Unità, quando si scriveva il nuovo codice civile e Pasquale Stanislao Mancini fece prevalere proprio il principio per cui allo straniero veniva riconosciuta una serie di diritti senza alcuna condizione di reciprocità. Un segno, all’epoca, di straordinaria civiltà, che venne cancellato dal fascismo con il codice del 1942. Oggi i richiami espliciti o impliciti alla reciprocità sono molto più di un ostacolo posto ai diritti degli altri. Sono la negazione di un’idea di cittadinanza come patrimonio della persona, che ciascuno porta con sé indipendentemente dal luogo in cui è nato o dove vive. Sono il segno di una cieca chiusura identitaria, di una contemplazione delle proprie radici che induce a vedere l’altro come estraneo, come entità da tenere lontana, e che per ciò favoriscono nuovi conflitti. No alla reciprocità, dunque.
2) Rinunciare all’uso violento della legge e del diritto. È la linea che ha prevalso in questi anni, e che rischia di proseguire nel futuro. Si chiudono porte e si rifiuta di aprirne nuove. Questa è la storia del colpo di mano sulle norme in materia di uso di stupefacenti, della legge sulla procreazione assistita, dell’ostilità ai Pacs e al testamento biologico. La previsione di regole e limiti non trascina necessariamente con sé la trasformazione della legge in strumento per imporre un particolare punto di vista, un’ideologia, per far assumere allo Stato una marcata connotazione etica. Così le leggi diventano strumenti oppressivi o vani programmi, ai quali si cerca di sfuggire, come già fanno le donne che vanno all’estero per ricorrere a forme di procreazione assistita vietate in Italia o coloro che espatriano verso luoghi dove morire con dignità. Una legge che ignora umanità e pietà delegittima sé e il Parlamento che l’ha votata, allontana i cittadini dalle istituzioni. Invece di blindarsi dietro certezze ideologiche, bisognerebbe leggere parole come quelle adoperate, pochi giorni fa, da un giudice francese che ha stabilito che non si dovesse procedere contro la madre che aveva esaudito la volontà del figlio d’essere liberato da terribili sofferenze e di morire con dignità, compiendo così quello che proprio per il figlio rappresentava "l’ultimo atto d’amore". No all’uso violento del diritto, dunque. Ma pure sì ad un ricorso ad esso che riconosca le ragioni della persona, e la renda a un tempo più libera e più responsabile.
3) Basta con la guerra sull’embrione. Legittime le posizioni della Chiesa, ma legittimo pure l’atteggiamento di chi non le condivide, con argomenti che non possono essere scartati con una mossa puramente ideologica. Il dovere del credente non può essere convertito in un obbligo per il cittadino. Di questo elementare principio dovrebbe farsi custode il Parlamento, che dovrebbe ben sapere come la rinuncia ad imporre una particolare visione dell’embrione non significhi degradarlo ad ammasso di cellule, privo d’ogni protezione giuridica. E le future Camere non possono rimanere prigioniere della forzatura istituzionale di quanti si rifanno ai risultati del referendum per affermare l’intoccabilità della legge sulla procreazione assistita. Questo vincolo esiste quando il referendum ha espresso una maggioranza favorevole o contraria alla legge considerata, non nei casi di semplice mancanza del quorum, come dicono chiaramente esempi del passato. Da molti punti di vista la legge sulla procreazione assistita è una pessima legge, e nessun legislatore responsabile può ignorare questo dato di realtà. O chiudere gli occhi di fronte al fatto che la proclamata difesa dell’embrione nulla ha a che fare con le norme discriminatorie che vietano il ricorso ai gameti di un donatore o l’accesso alle tecniche di procreazione per le donne sole. Sì, quindi, alla ripresa di un dialogo senza pregiudiziali ideologiche o formalistiche, e soprattutto senza anatemi e accuse d’omicidio a chi segue l’opinione dei moltissimi scienziati che ritengono che non sia corretta l’identificazione dell’embrione con la persona.
4) No all’inquinamento dell’ambiente delle libertà civili. L’argomento della sicurezza si è trasformato in pretesto per stringere le maglie dei controlli pubblici e privati sui cittadini, per inoculare nella società i veleni della lotta di tutti contro tutti, com’è avvenuto con l’allargamento dei casi di legittimo uso delle armi. È in agguato una pericolosa "democrazia delle emozioni", che si traduce in una vera e propria abdicazione della politica, che rinuncia alla sua indispensabile funzione di filtro delle domande sociali e della loro ammissibilità misurata con i valori costituzionali, vero fondamento della democrazia. Si abusa della parola "libertà" sui cartelloni pubblicitari, e si coltiva nelle azioni concrete il disprezzo per i diritti. Ci si abbandona alle derive tecnologiche, senza tener conto dei rischi per le libertà dei cittadini e della riduzione d’ogni problema a questione d’ordine pubblico. In una zona considerata pericolosa si preferisce ricorrere sempre più spesso alla videosorveglianza piuttosto che cercar di capire le radici sociali del disagio e della violenza. Sì, allora, ad una rinnovata lotta per il diritto, nel senso che spingeva Benedetto Croce a far pubblicare negli anni del fascismo un piccolo classico del liberalismo giuridico che portava appunto quel titolo, scritto da Rudolf von Jhering.
5) No ad un uso della storia che prima la falsifica e poi l’impugna come un’arma. Un solo esempio. Per criticare i giudici di oggi, si descrive una magistratura dell’età liberale pura e indipendente, mentre una serie di ricerche ha da tempo messo in evidenza la sua subordinazione formale al potere esecutivo. E l’esercito dei revisionisti farebbe bene a leggere un saggio del 1958 di Achille Battaglia, che mostra come una serie di norme siano state adoperate, nel dopoguerra, per colpire i partigiani e favorire i fascisti. Sì, allora, ad un ritorno alla lettura dei libri ed all’onestà intellettuale.
6) Liberarsi del linguaggio degradato. Non è facile, perché ha avuto origini e legittimazione anche in alti luoghi istituzionali, e trova incentivo continuo in un sistema della comunicazione dove l’insulto fa più notizia d’una iniziativa seria. Ma si cominci, almeno a non essere più indulgenti con queste manifestazioni, a non derubricarle a folklore politico, a non chiudere gli occhi di fronte all’aggressività sociale favorita dall’aggressività delle parole.
7) Uscire dalla schizofrenia politica e istituzionale. Un bilancio di questa legislatura mostra con grande chiarezza che si sono allentati i vincoli all’agire economico e si è invasa la sfera privata delle persone. Si è stati proibizionisti in bioetica e distratti di fronte alle tecnologie elettroniche, che pure incidono in profondo sulla vita di ognuno. Ed è troppo chiedere un minimo di riflessione, non dirò autocritica, sul modo in cui ha funzionato un sistema che ha sì prodotto bipolarismo, ma pure uno scontro distruttivo davvero senza precedenti?

Stefano Rodotà

Stefano Rodotà (1933-2017) è stato professore emerito di Diritto civile all’Università di Roma “La Sapienza”. Ha insegnato in molte università straniere ed è stato parlamentare in Italia e in Europa. …