Marco D'Eramo: Stati uniti. Usi all'abuso

18 Aprile 2006
Ma quand'è che l'opinione pubblica americana si deciderà infine a riconoscere che da anni ammette l'inammissibile? È questa la domanda, ormai stanca, che sbotta di fronte all'ennesima rivelazione, un documento del Pentagono che collega direttamente il segretario alla difesa Donald Rumsfeld a un singolo, preciso caso di tortura perpetrato a Guantanamo: nel dicembre 2002 Rumsfeld s'informava parecchie volte alla settimana di come andava la tortura, e se il prigioniero aveva ceduto o meno. Come ha detto una responsabile dell'organizzazione Human Rights Watch, ‟a questo punto il problema non è sapere se Rumsfeld dovrebbe dimettersi, bensì se dovrebbe essere incriminato”.
Sono anni che vengono resi noti fatti gravi, per un titolo o un altro intollerabili in democrazia, e sempre finiscono per essere tollerati. La politica statunitense è ormai in uno stato di cronica fibrillazione a bassa intensità di cui l'ultima rivelazione costituisce solo un'ulteriore riprova. Senza risalire tanto nel tempo, nella primavera 2004 le torture ad Abu Ghraib sembrarono sul punto di provocare le dimissioni dello stesso Rumsfeld (che le offrì due volte al presidente George W. Bush), ma poi tutto rientrò nell'ordine. Alla fine della scorsa estate l'uragano Katrina si abbatté prima sulle coste di Louisiana e Mississippi, poi sull'amministrazione Bush per lo scandalo dei soccorsi: ma i suoi effetti furono più nefasti per New Orleans che per la Casa bianca. E infatti perfino quel ciclone distruttore ha (politicamente) lasciato il tempo che ha trovato.
Nell'ottobre scorso il procuratore speciale che indagava su una fuga di notizie riservate sembrò sul punto di chiamare in causa il vice presidente Dick Cheney e il potentissimo capo dello staff della Casa bianca Carl Rove. Il tutto si risolse nell'incriminazione dell'aiutante di Cheney, I. Lewis Libby.
A dicembre 2005, dopo aver tenuto per un anno la notizia nel cassetto, il New York Times e il Washington Post si decisero a rivelare che la Casa bianca aveva fatto intercettare le telefonate dei suoi cittadini senza autorizzazione giudiziaria. Era un abuso di poteri così enorme che una procedura d'impeachment sembrava quasi obbligata. Ma Bush assicurò che ‟grazie a queste intercettazioni molte vite americane erano state salvate”, e fu preso in parola.
A febbraio, il vicepresidente Cheney sparò a un suo amico durante una partita di caccia, e tenne segreta la notizia per più di un giorno: una storia o da scadente romanzo giallo o da incurante monarca assoluto. Questo sovrano silenzio era potenzialmente distruttivo, ma l'unico a restarne impallinato fu il malcapitato cacciatore, e nel mondo dei media tutto restò allo stadio del ‟malcelato stupore”. Il 6 aprile è stata resa pubblica una dichiarazione giurata di Libby che accusa Bush di aver autorizzato personalmente la fuga di notizie riservate Cia: anche questa è un'accusa da impeachment. Ma solo dieci giorni dopo ci siamo tutti già dimenticati dell'intera vicenda.
Così questo stillicidio di rivelazioni non ha altro effetto se non quello di assuefare progressivamente l'opinione pubblica al rattrappirsi della sfera democratica che si riduce sempre più, come pelle di zigrino, tanto che l'allarme è stato lanciato persino da Sandra Day O'Connor: ‟Il paese scivola verso la dittatura” ha detto la prima giudice donna della Corte Suprema degli Stati uniti, che a questa Corte fu nominata da un presidente ultraconservatore come Ronald Reagan.
Ma come il re Mitridate non sentiva più l'effetto dei veleni a forza di assorbirne un po' ogni giorno, così - grazie anche al conformismo di giornali e tv - la società statunitense non reagisce più a nessuna rivelazione. E intanto Bush e Rumsfeld parlano sempre più spesso di un'altra bella guerra preventiva, questa volta contro l'Iran.

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …