Giorgio Bocca: Enrico Mattei. Nell’Italia della speranza e dei misteri

26 Aprile 2006
Perché gli anni di Enrico Mattei furono i più intensi e indimenticabili della nostra vita? Perché con lui continuava l’Italia partigiana, l’Italia della Costituzione, l’Italia di quelli che avevano sotterrato il fascismo crepuscolare di Salò, che avevano fondato l’alleanza antifascista, l’Italia che si era schierata dalla parte giusta, dalla parte dei sindacati operai, della Repubblica. Per noi Enrico Mattei era poi l’Italia del ‟Giorno”, il quotidiano che aveva rotto il monopolio plumbeo dei grandi fogli della Confindustria, il giornale che raccontava l’Italia come era, anche delle masse popolari e delle fabbriche e non solo quella delle inaugurazioni con il taglio del nastro tricolore da parte del ministro o del vescovo. Non l’Italia di Stalin e del comunismo come dicevano i reazionari, ma degli italiani di tutte le classi. La presenza di tipi come Mattei spiegava anche a noi partigiani che la guerra di liberazione era stata anche una rivoluzione della società italiana, con il ritorno della democrazia intesa come partecipazione di tutti, anche degli operai e dei contadini. Non più una Italia sotto tutela dei ricchi e dei potenti, ma un’Italia in movimento, magari caotico, ma irresistibile. Enrico Mattei era un uomo secco e virile, nazionalista e populista, onesto e corruttore, uno che usava la politica per farsi largo ma anche per fare e fare bene nella vita pubblica. Tipi così ne avevamo conosciuti anche nel regime mussoliniano, tipi che ci sono sempre stati nel nostro paese, della specie dei condottieri, odiati e amati, profondamente italiani e profondamente antitaliani, per dire fuori dagli egoismi personali o di classe, fuori dagli opportunismi e dalle viltà. Nel ‘45 Mattei aveva salvato dalla liquidazione l’industria petrolifera di Stato che le grandi compagnie americane volevano ingoiarsi, aiutato da uomini simili a lui, profondamente italiani, profondamente antitaliani, come Vanoni e De Gasperi e Parri. E nel ‘56 aveva finanziato Il Giorno senza sapere bene quale giornale avrebbe fatto, ma antifascista certamente, di centrosinistra certamente. La posta in gioco nella lotta a cui anche ‟Il Giorno” partecipava in prima fila non erano tanto le ricerche petrolifere nella valle Padana a cui nessuno credeva veramente nonostante il "cane a sei zampe" e il finto giacimento di Cortemaggiore, ma la fine del monopolio conservatore, l’inizio di un vero riformismo. E il provinciale che sono ci ricadde, per la seconda volta tornò a sperare come nella guerra partigiana in un paese laico, moderno in cui anche con il nostro giornale si sarebbe dato vita a una nuova cultura moderna, industriale. La cosa riuscì a metà, ma per noi quella metà volle dire la salvezza da un nuovo regime dell’obbedienza e del silenzio. Al ‟Giorno” si poteva anche essere coraggiosi nei riguardi del vecchio establishment, era una breccia apertasi di colpo nel muro compatto del giornalismo "di informazione", cioè alto borghese, ricompattatosi subito dopo la liberazione. E se a Mattei il ‟Giorno” serviva per fare una buona politica, ai giornalisti serviva per fare del buon giornalismo. Mattei era stato un grande capo partigiano e lo restava anche se era uomo di governo e della Democrazia cristiana. Degli ex partigiani si era servito per stendere durante la notte i metanodotti fra Piacenza e Milano e a noi quel colpo di mano era piaciuto molto, rientrava nella idea partigiana che il progresso va aiutato anche con i colpi di mano. E furono tipicamente partigiani i miei rapporti con lui. Un giorno, esco dal giornale con il direttore Pietra e lui mi fa ‟vuoi venire con me a Vienna, ti faccio conoscere una persona interessante”. Un’ora dopo, siamo su un aereo diretti a Vienna e Pietra, che è anche po’ uomo di trame segrete, non mi dice chi è la persona interessante. Andiamo verso sera all’appuntamento con la persona interessante che ci aspetta in una saletta del Grand Hotel. È Mattei. Vuol sapere in che formazione ero, se ero a Milano il 25 aprile. Poi guarda l’orologio, si alza e se ne va con Pietra, da chi, non lo chiedo. Rivedo Pietra l’indomani e gli domando: ‟Scusa ma perché ha voluto incontrarmi?”. ‟Perché, dice lui, a te non piace incontrare uno che c’era in montagna?”. Semplicemente, Mattei di quelli che c’erano in montagna si fidava, gli piaceva riaverli attorno. Fu così anche a Gioia Tauro a una manifestazione socialista con Giacomo Mancini per la costruzione del porto. Venne al tavolo di noi giornalisti e mi presentò a Mancini, che del resto conoscevo: ‟Questo è uno che spara anche sui giornali”. Uno di quelli che non hanno mai creduto a una sua morte accidentale, come non ci ha mai creduto Italo Pietra. Leggo nel suo libro: ‟Nella primavera del ‘63 fui ricevuto da Krusciov al Cremlino per un’intervista. Le sue prime parole furono: ‘Mi dica subito qualcosa dell’assassinio del suo amico Mattei’”. Quel qualcosa, lo avevamo previsto da tempo, da quando la lotta per il potere era arrivata anche nel giornale, da quando dovemmo lavorare nel giornale dei due direttori e dei due padroni. Misteriosa faccenda, che, allora non potevamo capire e che poi nessuno ci ha spiegato: che ‟Il Giorno” dovesse avere due direttori lo apprendemmo da un breve comunicato dove improvvisamente apparve come condirettore il nome di Ettore Della Giovanna, un collega veneto moderato vicino a Moro, e non ci fu verso di sapere da Pietra che cosa significasse quella direzione consolare, come non si riuscì a sapere che ruolo preciso avesse nell’Eni e nel giornale Eugenio Cefis. Si sapeva solo che, a volte, la domenica mattina, quando le redazioni erano deserte, Cefis arrivava al giornale, saliva al piano più alto nel laboratorio fotografico dove sviluppava da sé le sue fotografie che dovevano restare nel segreto che aveva appreso assieme a Pietra nel Sim, il servizio di informazione dell’esercito, pare l’unico servizio funzionante in quello scassatissimo regio esercito. Erano segretissimi anche i suoi incontri che avvenivano quasi sempre vicino a San Donato, in aperta campagna nella Citroen "Deesse" personale del numero due dell’Eni, di cui si diceva che fosse quello destinato da Moro e da Fanfani a riannodare le trattative con le "sette sorelle". E fu sotto il segno di questi misteri e di questa impenetrabile ambiguità che si svolsero i funerali di Mattei, prima con la ricognizione a Bescapè nella campagna in cui il suo aereo era misteriosamente caduto e poi nella direzione dell’Eni fra una folla di ministri, generali, grandi manager fra cui si riconoscevano facilmente quelli che erano felici di esserselo tolto una buona volta dai piedi e quelli che lo piangevano non solo con dolore, ma con il triste presagio che la vecchia Italia riprendeva in mano le fila del potere.

Giorgio Bocca

Giorgio Bocca (Cuneo, 1920 - Milano, 2011) è stato tra i giornalisti italiani più noti e importanti. Ha ricevuto il premio Ilaria Alpi alla carriera nel 2008. Feltrinelli ha pubblicato …