Stefano Rodotà: Referendum oscurato dalla politica-show

25 Maggio 2006
È legittimo chiedere ai politici una tregua, una moratoria, una provvisoria rinuncia, una temporanea astinenza che arresti la bulimia con la quale si avventano voracemente su tutti i talk-show che quotidianamente li convocano per discutere di qualsiasi tema? E’ legittimo chiedere ai politici del centrosinistra di partecipare solo alle trasmissioni nelle quali possano parlare del referendum costituzionale del 25 giugno?
Credo che vi siano molte buone ragioni per fare queste domande, e rispondere di sì. Si è creato un generale e indistinto contenitore televisivo, che ingoia politica e politici, che ormai ha poco a che fare con una giusta e diretta comunicazione con l’opinione pubblica, trasformato com’è in una triste e ripetitiva vetrina, in un palcoscenico dove si mettono in scena prevedibili risse e tic ormai familiari, che gli spettatori più o meno smaliziati aspettano come se assistessero ad un serial.
In quest’unico, grande contenitore (o frullatore?) è cancellata ogni gerarchia, il delitto truculento, la baruffa nel mondo dello spettacolo o le questioni dell’occupazione si vedono attribuito lo stesso valore proprio dalla presenza degli stessi attori.
Da qui nasce la seconda domanda. L’agenda politica è stata sequestrata, o almeno distorta, dal sistema dei talk-show. Così la richiesta di parlare solo del referendum non riflette soltanto l’importanza del tema e dell’occasione, ma anche un tentativo della politica di avere voce nella fissazione di questa agenda pubblica parallela (e talvolta soverchiante), nella definizione delle priorità.
Finora questa voce non si è manifestata. Nella campagna elettorale dell’Unione la questione referendaria non ha trovato un posto significativo (eufemismo), pur trattandosi della materia maggiormente espressiva della distanza profonda tra i due schieramenti, della logica sostanzialmente eversiva dell’ordine costituzionale che ha accompagnato l’intero operare di Governo e maggioranza nella passata legislatura. Si dirà che non v’è stata nessuna sottovalutazione, ma soltanto un rinvio legato alla separazione temporale tra voto elettorale e voto referendario. E questo è stato un errore, non tanto perché non si è utilizzato un argomento politicamente forte, ma soprattutto perché, scorporato dal contesto politico generale, il tema referendario rischia di essere percepito come questione tecnica, per molti versi difficile da comprendere.
Ora la forza dirompente del referendum costituzionale è, o dovrebbe essere, davanti agli occhi di tutti. Berlusconi ha dichiarato di volerne fare una occasione di rivincita. E quale rivincita sarebbe! Lo sconfitto catturerebbe il vincitore, obbligato in futuro ad obbedire alle regole fissate dall’altro. La strategia referendaria dovrebbe essere lineare, e invece rischia di complicarsi. Si dice: non al muro contro muro, trasferendo impropriamente sul voto di giugno le preoccupazioni sulla "spaccatura" del paese. Ma il referendum ha nella sua natura l’alternativa secca, è il regno del "sì o no", e l’esperienza mostra che i referendum sono stati vinti solo quando ci si è presentati con assoluta chiarezza. E poi: per evitare il muro contro muro bisogna essere in due, e non sembra che l’attuale opposizione sia percorsa da questi spiriti, tanto che ha richiamato all’ordine i riottosi, ottenendo dichiarazioni di fedeltà assoluta anche da chi, come l’Udc, aveva in passato dichiarato che si trattava di materia da affidare alla libertà di voto. Se vi fosse da parte dell’Unione un sia pur lieve disarmo unilaterale, gli elettori non capirebbero e si regalerebbe un vantaggio non piccolo ai sostenitori della sciagurata riforma.
In realtà, il ricorso all’argomento del muro contro muro è anteriore all’esito elettorale e svela un obiettivo politico consistente nel tentativo di definire fin d’ora quella che dovrebbe essere una possibile politica costituzionale per il dopo referendum. Su questo bisogna essere chiari. Solo dicendo che quella riforma è pessima, ed eliminandola, sarà possibile riprendere seriamente la discussione sulla Costituzione, senza ipoteche preventive. Solo abbandonando le velleità dell’ingegneria costituzionale, che hanno già fatto troppi danni, si potrà avviare una equilibrata "manutenzione" di una Costituzione che rimane buona, che richiede interventi solo su pochi e precisi punti, che dev’essere salvaguardata nella sua prima parte dedicata alle libertà e ai diritti. Solo recuperando nel suo significato profondo la cultura costituzionale è possibile vincere la prova referendaria ed avviare una stagione affidata ad un costituzionalismo maturo.
L’appannamento della cultura costituzionale è grave, evidente, ha molte cause. Molti segnali recenti lo confermano. Nel tentativo di superare il muro contro muro, durante l’elezione del Presidente della Repubblica, si è offerto all’opposizione un negoziato su regole e principi costituzionali che non sono disponibili per nessuna trattativa politica. Assistiamo in questi giorni all’aggressione ai senatori a vita, doppiamente avvilente: perché vuole ridurli a figure puramente decorative, incapaci d’intendere e di volere nell’esercizio pieno della loro funzione istituzionale; perché ha determinato una spinta ad attrarre un alto ruolo istituzionale nella perversa logica della spartizione. Non è la prima volta che ciò avviene. Mai, però, in modo così conclamato, e spudorato. Si è chiesto ad alta voce un "riequilibrio". In sostanza, il Presidente della Repubblica dovrebbe nominare un senatore a vita doc, a denominazione di origine controllata di destra, che garantisca così preventivamente il modo in cui voterà. Sarebbe anche questa una delle condizioni per superare il muro contro muro? O questo modo d’intendere le istituzioni non è pure la conseguenza del modo approssimativo e frettoloso con cui si è corsi verso il bipolarismo, che ci ha regalato anni terribili e sul quale pare che nessuno sia disposto a riflettere?
Ma le questioni costituzionali non sono affare del solo ceto politico. Oggi sono in campo i cittadini, che decideranno con il loro voto il futuro costituzionale dell’Italia. E questo momento ha una forza politica dirompente, perché il modo in cui si ridisegnano la forma di Stato e di governo è destinato ad incidere profondamente sugli stessi valori fondativi del patto costituzionale. E’ un momento nel quale non può essere assente o flebile la voce degli studiosi di diritto costituzionale, se essi non intendono la loro funzione culturale soltanto come l’accompagnamento più o meno rassegnato di quel che fa una politica sempre più autoreferenziale, sempre più prigioniera di un uso puramente congiunturale delle istituzioni.
Si indichi pure, se si vuole, qualche intervento specifico da attuare se si riuscirà a cancellare l’attuale testo (a cominciare dalle indispensabili modifiche alla cattiva riforma del titolo V della Costituzione a suo tempo approvata dal centrosinistra). Ma il punto forte della campagna elettorale deve essere appunto un richiamo esplicito ai valori fondativi della Costituzione, al collegamento tra questi e i valori espressi nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, allargando così l’orizzonte culturale e politico e rendendo esplicita l’ispirazione ideale che deve guidare il nuovo governo.
Questa è la via per costruire quel consenso popolare che nessuna argomentazione puramente tecnica può far nascere. E si avvierebbe pure quella rigenerazione della politica che non può essere affidata soltanto alle alchimie ed agli annusamenti tra partiti.

Stefano Rodotà

Stefano Rodotà (1933-2017) è stato professore emerito di Diritto civile all’Università di Roma “La Sapienza”. Ha insegnato in molte università straniere ed è stato parlamentare in Italia e in Europa. …