“Non cercate la felicità”. Incontro con Banana Yoshimoto

23 Giugno 2006
‟La felicità? Arriva all’improvviso, indipendentemente dalla situazione e le circostanze del momento, tanto da sembrare spietata. In qualsiasi condizione, e con chiunque ti trovi. Non puoi prevederla in alcun modo. È impossibile crearsi la felicità da soli, secondo i propri desideri. Può arrivare un attimo dopo, oppure non arrivare, per quanto uno possa aspettare. È imprevedibile come lo sono le onde e il tempo”. Se la felicità è una variabile legata al caso, la disperazione è invece una costante ineluttabile. In altre parole, Banana Yoshimoto non è ancora stanca del dolore. Diventata mamma mentre scriveva il suo ultimo libro, si è affrettata a finirlo perché ‟avevo paura che la maternità mi potesse impedire di mettere sulla carta storie molto tristi”. E le parole citate poco sopra dalla protagonista di Ricordi di un vicolo cieco - il racconto che dà il nome alla nuova raccolta della scrittrice giapponese, in libreria da oggi - rivelano al lettore come l’ormai ex ragazza prodigio di Kitchen non voglia ancora discostarsi dai binari espressivi che l’hanno resa famosa in tutto il mondo. ‟Ho deciso volontariamente di trattare argomenti molto cupi - spiega -. Sono interessata a tutto quanto nasce dentro le persone, alla stratificazione delle loro esperienze tragiche. Mi interessa capire come si comportano gli esseri umani nel momento del dolore. Solo, temevo che avendo un figlio si sarebbe atrofizzata la mia capacità di raccontare la sofferenza”.
Non è stato così. I personaggi di Banana Yoshimoto, 41 anni (è nata a Tokio nel luglio 1964), moderni Giobbe orientali, si muovono negli spazi angusti della loro esistenza senza imprecare per la loro condizione. Accettano il loro destino tragico (un tentativo di omicidio, il ricordo di un’amicizia disperata, uno stupro e così via) evitando ogni forma di ribellione. E riscattando la propria esistenza nella riscoperta della possibile felicità, fatta di rapporti umani, affetti ritrovati e semplicità del vivere. ‟Giobbe? Ho letto la Bibbia anche se non ricordo questo personaggio nei particolari - sorride Banana -. Posso però dire che la forma, l’archetipo del dolore esiste in tutti noi esseri umani, non è differente a seconda della provenienza. Anche in Giappone ci sono personaggi che possono essere paragonati a Giobbe. E alla fine tutti imparano a trovare il proprio riscatto nella riscoperta dei legami e nell’interazione con gli altri. Dentro o fuori dalla famiglia, dal vincolo di sangue”. Banana ammette serenamente di amare particolarmente la protagonista di Ricordi di un vicolo cieco, una giovane che ritrova l’amore e la voglia di vivere nel dialogo con Nishiyama, il proprietario di una taverna tradizionale giapponese. Il locale si chiama Fukorokoji, appunto Vicolo cieco, una metafora evidente delle pene inevitabili dell’esistenza. ‟Lei, la protagonista, mi assomiglia parecchio”, conferma la scrittrice, appena rientrata a Tokio da un viaggio nelle Hawaii. Banana è presissima dalla sua nuova condizione di genitrice. Trova il tempo per parlare del suo libro dopo aver finalmente messo a letto il bambino. ‟Sono una mamma giapponese tradizionale. Cerco di dedicare tutto il tempo possibile a mio figlio che ha tre anni e alla mia famiglia”. In realtà, una ‟mamma giapponese tradizionale” avrebbe abbandonato il lavoro al momento del matrimonio per occuparsi del marito, della casa e dei futuri figli. Banana Yoshimoto si è sposata solo religiosamente (in Giappone è meno importante della cerimonia civile) riuscendo così a mantenere il suo cognome all’anagrafe e certo non ha rinunciato al suo mestiere. ‟Sono una donna fortunata: mio marito, che si occupa del benessere altrui (è un massaggiatore, ndr), mi aiuta molto. Ma talvolta per scrivere mi tocca stare sveglia tutta la notte”.
La Yoshimoto, capostipite di una generazione di scrittrici donne ammiratissime nel loro Paese come Yu Miri e Yoko Ogawa, appare insomma al tempo stesso dentro e fuori dalla tradizione. Ma quello che ai nostri occhi di occidentali può apparire una contraddizione, è del tutto normale nel Paese dove convivono due religioni antitetiche come il buddismo e lo scintoismo (quasi tutti i giapponesi le professano entrambe), dove la cultura occidentale si è (felicemente?) innestata nella millenaria tradizione autoctona, dove i treni superveloci Shinkansen viaggiano accanto a edifici in legno e carta, dove geishe in kimono servono il tè esattamente come mille anni fa. Ed è del tutto accettabile soprattutto se viene da una scrittrice osannata e considerata addirittura un’erede delle prime autrici in lingua giapponese, agli albori della civiltà del Sol Levante. Insomma, come la dama di corte dell’era Heian Murasaki Shikibu (973-1025? d.C.), Banana Yoshimoto si ritrova, per le sue scelte, isolata dalla società, normalmente una condanna in Giappone, per essere invece additata ad esempio. ‟Per me - spiega ancora Banana Yoshimoto - è una condizione al tempo stesso dura ma comoda”. Agli albori della letteratura in Giappone, gli uomini scrivevano in cinese, la lingua colta del tempo, mentre le donne - chiuse nei ginecei - usavano il giapponese per descrivere la loro vita. ‟Così è sbocciata la letteratura giapponese: è nata donna”.
Ed è per questo che Banana è venerata quasi come una dea a Tokio. Ma le similitudini finiscono qui. Perché Banana, non dimentichiamolo, è l’autrice che ha tradotto in letteratura il mondo dei manga, i fumetti giapponesi, con i tipici personaggi sognanti - assolutamente moderni - destinati a un pubblico adolescente e ansioso di trovare il proprio spazio in una società dove ogni desiderio deve incanalarsi in un prontuario infinito di convenzioni da assimilare. Inoltre ha mantenuto negli anni la sua cifra espressiva acerba, semplice e anche infantile. ‟Quando ho cominciato a pubblicare - dice - era un modo spontaneo di tradurre sulla pagina le storie che immaginavo. Con il tempo è diventato un lavoro volontario e consapevole: io desidero scrivere così”. E il suo rapporto con l’Occidente? Che cosa può dire la scrittrice giapponese universalmente considerata la più ‟occidentale” del Sol Levante? ‟Io mi servo di tutti i parametri della mia tradizione, la natura, gli oggetti e il mobilio di uso quotidiano come il tatami, il futon e il cibo per raccontare storie dove i personaggi si muovono e parlano come milioni di coetanei in Occidente. Certo, di fronte alle difficoltà, i miei personaggi agiscono da giapponesi. Per esempio, soffrono tutti di incomunicabilità. Per risolvere un problema non si affidano al confronto, si muovono in solitudine. In realtà, per persone della mia generazione, l’apporto della cultura occidentale è ormai un dato di fatto. Nemmeno ce ne accorgiamo più. È un bene? Un male? Il Giappone ha perso la guerra, diciamo che ci siamo fatti piacere la cultura di chi ci ha sconfitto. Se c’è stato scontro, è stato solo all’inizio”. Infine, che dice dell’Italia? ‟Semplice, è un Paese che adoro. Posso dire di soffrire di mal d’Italia se non la visito almeno una volta ogni sei mesi. A proposito, Dario Argento ha in mente di tornare a girare un film? Sarei capace di prendere l’aereo soltanto per vedere in anteprima la sua nuova opera...”.

Banana Yoshimoto

Banana Yoshimoto (Tokyo, 1964) ha conquistato un grandissimo numero di lettori in Italia a partire da Kitchen, pubblicato da Feltrinelli nel 1991, e si è presentata come un autentico caso …

La cattura

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di Salvo Palazzolo, Maurizio de Lucia