Marco D'Eramo: L'11 settembre ci ha fuso il cervello

13 Settembre 2006
Da giorni il pianeta si chiede pensoso in che modo l'11 settembre 2001 ha cambiato per sempre il mondo e la nostra vita. Molte le conseguenze sviscerate, dal ridursi della nostra privacy all'insicurezza. Ma un cambiamento non viene mai nominato. Ed è che l'11 settembre ci ha reso tutti più stupidi: gli aerei schiantatisi sul World Trade Center non solo hanno disciolto l'acciaio delle Twin Towers, ma ci hanno anche fuso il cervello. Il danno collaterale più devastante è quello che ha sgretolato la nostra capacità di ragionare. Non si spiegherebbe altrimenti come mai in cinque anni nessun politico, filosofo, opinionista, linguista abbia sul serio tentato di analizzare la nozione che da quel fatidico mattino settembrino tiranneggia il campo semantico del nostro dibattito politico, e cioè il concetto di ‟guerra al terrorismo”. Analizzare vuole dire valutare se quest'espressione va presa alla lettera, o in senso metaforico, oppure connotativo, o se invece è solo uno pseudoconcetto.
Alla lettera non può essere certo presa: il terrorismo costituisce una specifica sottotecnica dell'arte della guerra, come la guerriglia, o il paracadutismo. In quest'accezione, dichiarare ‟guerra al terrorismo” ha altrettanto senso quanto dichiarare ‟guerra al paracadutismo”. O, per restare in tema, quanto una ‟guerra alla guerriglia”. Ma se non alla lettera, come?
Forse come metafora? Nello stesso modo in cui il presidente Lyndon Johnson dichiarò nel 1964 la ‟guerra alla povertà”? No di certo, visto che la guerra al terrorismo nulla ha di metaforico e il sangue che versa è più che reale. Allora forse in un altro senso retorico, che sostituisce l'astratto sostantivo singolare alla concreta molteplicità degli agenti: qui, ‟guerra al terrorismo” sostituirebbe ‟guerra ai terroristi”, come ‟guerra alla droga” sta per ‟guerra ai narcotrafficanti” (nel migliore dei casi) o ‟ai drogati” (nel peggiore). Se così fosse, il paragone sarebbe scoraggiante: in 30 anni la ‟guerra alla droga” non ha portato da nessuna parte.
Ma anche ‟guerra ai terroristi” è scivolosa perché accomuna soggetti diversi, con diversi obiettivi, diverse ideologie, solo per il fatto che praticano una comune forma di lotta: così dichiarare ‟guerra ai guerriglieri” metterebbe insieme i vietcong e i contras antisandinisti, Che Guevara e Savimbi. C'è di più: ‟terrorista” è già di per sé una definizione eteronoma: nessuno si darà da solo del terrorista, ma saranno sempre i nemici a definirlo tale. Per i nazisti erano Terroristen i maquisards francesi; per la potenza coloniale inglese, terrorista era l'ebreo Menahem Beghin; per i francesi, terroristi erano i militanti del Fronte di liberazione nazionale algerino; per i sovietici, terrorista era l'afghano Ahmad Shah Massud; per gli israeliani, terroristi sono gli Hezbollah. Ma ora per i francesi i Terroristen del 1940-'45 sono eroici partigiani; per l'Algeria postcoloniale i moujahid sono martiri dell'indipendenza; per gli israeliani Beghin è un padre della patria (mentre la comunità internazionale lo ha onorato di un premio Nobel per la pace); Massud è celebrato ora in innumeri saghe e film hollywoodiani come ‟il leone del Panshir”. Se ne deduce che ‟terrorista” è il termine con cui si indica il nemico durante il conflitto, e il nemico sconfitto dopo il conflitto (negli Usa, nessuno osa chiamare ‟terroristi” i vietcong solo perché la guerra l'hanno vinta). Il valore euristico del termine è perciò nullo. Terrorista è qualunque nemico ci aggradi definire tale.
Nella ‟guerra al terrorismo” vi è poi un'ulteriore aporia: il terrorismo è la forma di combattimento adottata da chi non è in grado di combattere una vera guerra. Si dichiara cioè guerra a chi si sottrae alla guerra. Si obietterà che la specificità del ‟terrorismo” sta appunto nel terrorizzare inermi civili: ma così non è, e lo si vede dai molti stati che, per piegare il nemico, da sempre incutono il massimo terrore possibile tra i civili nemici, dai bombardamenti di Dresda in cui perirono centinaia di migliaia di tedeschi ai più recenti bombardamenti in Libano in cui sono morti centinaia di bambini e donne: eppure l'espressione ‟terrorismo di stato” non incontra il favore di politologi e mass-media. No, ci si riferisce sempre e solo al ‟terrorismo 'NG'‟, non a quello statale (in inglese ‟NG” non vuol dire ‟Non Governativo”, bensì ‟Non Statale”). Già l'aporia di dichiarare guerra a una forma di lotta adottata da chi non è in grado di combattere una guerra, ci fa capire il vicolo cieco, non solo logico, ma politico, materiale in cui la ‟guerra al terrorismo” ci avvita. Quanto più le grandi potenze dispiegano la loro superiorità tecnologica, tanto più chi le avversa è ridotto a dedicarsi a quelli che Chalmers Johnson chiama ‟gli attacchi asimmetrici”. In un libro che sta per uscire, Mike Davis definisce le autobomba ‟l'aviazione dei poveri”. Il risultato è che ‟la guerra al terrorismo” genera terroristi, li moltiplica, li nutre. E viene da chiedersi se quest'esito non fosse stato preso in considerazione da chi ha coniato il termine.
Rimane un'ultima ipotesi, che si tratti di un mero slogan, efficace, plasmabile a tutte le bisogna, ma che, come negli spot in cui si usa una donna discinta per vendere una vettura potente, dica altro. Indichi cioè semplicemente ‟guerra all'Islam”. Si disvelerebbe allora il paralogismo logico di Samuel Huntington secondo cui ‟la guerra al terrorismo” è in realtà uno ‟scontro di civiltà”, per il semplice fatto che la prima sarebbe solo il nome del secondo. Ma il tragico sta proprio nel nostro subire succubi queste espressioni, accettare che governino le nostre vite, determinino guerre, invasioni, eccidi, in nome di un slogan al meglio, di una soperchieria al peggio.
PS. La ragione continua però ostinata a fare capolino di tanto in tanto. Così la critica al concetto di ‟guerra al terrorismo” non viene solo da un giornale estremista e considerato anti-israeliano come il manifesto: fa piacere che un celebre miliardario e filantropo come l'ungherese di origine ebraica George Soros su Le Monde datato venerdì scorso attacchi questo concetto come fuorviante e controproducente.

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …