Giorgio Bocca: Nell'inferno della guerra perenne

29 Novembre 2006
E se chiamassimo le cose con il loro nome, se la smettessimo una buona volta di chiamare pace la guerra? Capo dello Stato e capo del governo fanno a gara in questo esercizio da prestidigitatori per cui il corvo nero della guerra esce dai loro cilindri come una bianca colomba di pace.
A che pro? Tenere buone le opposizioni pacifiste? Allinearsi al buonismo d'uso nelle cancellerie delle grandi potenze armate fino ai denti?
Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha deciso anche per conto nostro che "i diciannove soldati italiani morti nell'agguato di Nassiriya sono morti in un nobile intento di pace". Strana pace quella di un corpo d'occupazione in un paese che non solo questa occupazione non l'ha richiesta, ma che ogni giorno la combatte con una intensità che sta mettendo in pericolo la intera spedizione guidata dagli Stati Uniti.
Nei mesi scorsi, quasi ogni giorno le televisioni ci hanno mostrato quale nobile intento di pace fosse il nostro: colonne armate che pattugliavano il territorio nemico spesso con mezzi inefficienti, autoblindo sventrate dalle bombe dei ribelli, carri armati dalla protezione insufficiente.
Quale pace assicuravano i nostri soldati? La pace dei vincitori, la ricostruzione del Paese. Ma che curiosa impresa! Prima si distruggono le città, i servizi civili, le scuole, gli ospedali e poi la ricostruzione diventa il buon affare di qualche grande impresa come la Halliburton. Il progetto era demenziale, la resistenza irachena inevitabile, ma per ottenere il licenziamento del signor Donald Rumsfeld, legato a filo doppio agli affari del petrolio e delle costruzioni, si è dovuto arrivare alle elezioni di mezzo termine.
Per il nobile intento di pace ci siamo comportati per lunghi mesi come degli intrusi odiati dalla popolazione, i nostri ministri in visita non uscivano dal campo trincerato, alcuni vantavano come una vera impresa di guerra esser arrivati in aereo sulla pista interna al campo.
L'altro luogo comune per giustificare la guerra era che dovevamo star lì per evitare la guerra civile, la guerra fra le etnie irachene, fra gli sciiti e i sunniti. Bene: dobbiamo ancora venir via dall'Iraq, ma la guerra civile è un fatto compiuto, le etnie di Baghdad si sono divise sotto la pressione del terrore, quartieri di sciiti isolati dai quartieri dei sunniti. E il macello continua ogni giorno, le bombe umane fanno decine di morti attorno al quartiere blindato del comando americano: in nessuna guerra combattuta da essere umani si era assistito a una simile continua carneficina.
E ora con grande sussiego i generali americani con tre stelle, i ministri americani collaboratori di Bush arrivano negli studi della televisione e ammettono che qualche errore è stato fatto, che il lavoro, come lo chiamano, non è riuscito per concludere che bisogna ricominciarlo da capo con più soldati e più missili. E magari andrà così.
La popolazione americana è salita a 300 milioni, e a milioni si contano coloro per cui l'esercito può essere l'unica fonte di lavoro e di salario. L'ex capo del Pentagono Rumsfeld aveva inventato un sistema rapido per le condoglianze alle famiglie dei caduti, una ventina ogni giorno, mica si può ogni giorno fare delle cerimonie solenni come da noi in Italia. Tutto qui.
Non abbiamo soluzioni da proporre, dalla guerra è difficile fuggire, il nostro ministro degli esteri Massimo D'Alema, che era andato in Afghanistan per congedarsi, ha dovuto dire che in Afghanistan ci resteremo, anche se la guerra ai mujaheddin è persa in partenza.
Ma almeno diciamo le cose come stanno, diciamo che, dopo mezzo secolo di pace miracolosa, siamo tornati nell'inferno della guerra perenne.

Giorgio Bocca

Giorgio Bocca (Cuneo, 1920 - Milano, 2011) è stato tra i giornalisti italiani più noti e importanti. Ha ricevuto il premio Ilaria Alpi alla carriera nel 2008. Feltrinelli ha pubblicato …