Michele Serra: I pm su Welby. Staccare la spina si può

12 Dicembre 2006
Anche se non si può ordinare ai medici, per legge, di staccare la spina, Welby ha il pieno diritto di rifiutare una terapia non voluta. Le prime parole giuridiche pronunciate su Piergiorgio Welby, pur riflettendo la delicatezza estrema del suo caso, sono in significativa continuità con la gran parte delle opinioni fin qui raccolte: esprimono la piena accettazione del rifiuto opposto da Welby non certo alla vita, ma all’accanimento quasi superstizioso che, nel suo come in altri casi, ne ha preso il posto. Dico superstizioso perché definire "vita" un suo così dolente simulacro pare quasi il sintomo estremo del terrore della morte. Come se il corpo di Welby fosse, suo malgrado, un disperato scongiuro contro la fine che aspetta ogni essere umano. Ostaggio di una morale religiosa che dovrebbe (al contrario) preparare alla morte piuttosto che condannare alla vita purchessia. Fa davvero riflettere (e consola, in parte, i laici in difetto di orgoglio culturale) scoprire in un laico come Welby, a un passo dal termine, non solo la dignità degli stoici, ma la generosa volontà di fare del proprio destino un destino politico. è grazie a lui, alle sue parole gravi e pubbliche, serene e pubbliche, che si sta parlando di diritto a una morte dignitosa come legittimo esito della dignità della vita. Della vita, non d’altro: la vita di quel corpo che è la piena e inimitabile espressione dell’identità di ciascuno di noi, il domicilio dell’io, la sede dei pensieri, dello spirito, della libertà di autodeterminarsi. Esistono casi rimarchevoli di persone inerti in un letto, ma con piene facoltà mentali, che hanno manifestato una straordinaria volontà di sopravvivere comunque. Celebre fu il caso di Rosanna Benzi, che nel suo polmone di acciaio aveva trovato la maniera di continuare a sentirsi un essere sociale, non il pezzo di una macchina. Ma la quantità sopportabile del dolore, e della solitudine, e dell’umiliazione, non è decretabile per legge. Welby ha ampiamente spiegato di considerare la sua attuale condizione non soltanto inaccettabile, ma contraria alla sua vita. Non è la morte, per lui, l’opposto della vita, ma l’accanimento terapeutico imposto da convenzioni sociali che con la morte, evidentemente, non sono ancora riuscite a fare qualche durissimo ma inevitabile conto. Tortura è la parola più esatta per descrivere l’annichilimento della libertà della persona attraverso la manipolazione coatta del suo corpo e del suo dolore. Legiferare e esprimersi giuridicamente su questi argomenti è difficilissimo. Ci sono da rispettare, per esempio, le delicatissime implicazioni deontologiche dei medici, ed è quanto ha fatto la Procura di Roma. C’è da evitare che licenze di tipo suicidale si possano ammantare di pretesti libertari. C’è da tenere presente il pericoloso effetto emulativo che la società mediatica si porta dentro come un virus, in modo che da Welby non generi una specie di malinteso welbismo. Ma il nucleo fondamentale di questo caso, che è un caso di alto rispetto della vita e della morte, è oramai alla luce del sole, emerso da un vero e proprio mare oscuro di non-detti, di confessioni straziate di parenti anonimi, di dicerie ospedaliere. Finalmente, grazie a Welby, se ne parla fortemente, chiaramente, e sono state davvero pochissime, anche nel campo cattolico, le opinioni sordamente ostili alle ragioni di questo malato pubblico. E comunque, in un momento storico nel quale è così appassionato e acuto il confronto culturale e politico tra etiche differenti, il caso di Piergiorgio Welby è servito a dare forza, e vita, alle ragioni di chi non accetta che morali dogmatiche regolino a priori le scelte, a volte terribili, a volte fortunatamente solo impegnative, della vita individuale. Nessuna precettistica, per quanto ferrea, può trasformare la coscienza e il corpo di un uomo libero in un contenitore inerte. È la morale che deve servire agli uomini, non gli uomini alla morale.

Michele Serra

Michele Serra Errante è nato a Roma nel 1954 ed è cresciuto a Milano. Ha cominciato a scrivere a vent’anni e non ha mai fatto altro per guadagnarsi da vivere. …