Stefano Rodotà: Civiltà del testamento biologico

24 Gennaio 2007
Una legge mite e civile, come è e deve essere quella sul testamento biologico, rischia di trovare ostacoli imprevisti lungo il suo cammino parlamentare, d’essere caricata di significati impropri. La situazione sta assumendo tratti paradossali. Un alto e nitido intervento del cardinal Martini, che contribuisce assai al chiarimento della questione dal punto di vista religioso, ha scatenato una serie di reazioni che pretendono di stabilire quale sia il Verbo da seguire, quale l’unica e invincibile interpretazione cattolica, fino a toccare punte di grottesco con l’accusa a Martini di essere il battistrada dell’eutanasia. Non torna soltanto una confusione dalla quale si sperava che fossimo usciti. Cadiamo in una regressione culturale dalla quale non possono nascere né buone leggi, né un serio dibattito pubblico.
Serve pazienza. Ripetiamo, allora, le distinzioni fondamentali che, ovunque nel mondo, sono alla base delle analisi del tema drammatico del morire, sempre meno consegnato alla natura ed ai suoi ritmi, sempre più affidato all’umano ed alle sue scelte. Sono almeno quattro le situazioni da considerare, ben diverse tra loro, che non devono essere sovrapposte per evitare confusioni fuorvianti: accanimento terapeutico, rifiuto di cure, testamento biologico, suicidio assistito (eutanasia attiva). Tutto questo deve essere considerato in un contesto caratterizzato dal fatto che la salute è un diritto fondamentale e che il consenso informato dell’interessato rappresenta un riferimento ineliminabile, mancando il quale nessuna attività che riguardi la persona, la sua salute, il suo corpo può essere legittimamente intrapresa. Il testamento biologico (dirò più avanti perché penso che sia più opportuno parlare di direttive anticipate) è una decisione presa da una persona perfettamente lucida, che indica il modo in cui vuol essere trattata in futuro, qualora si trovi in situazioni estreme e sia divenuta incapace. Niente a che vedere con il rifiuto di cure, che consiste in una decisione attuale, non destinata a valere in futuro, presa da una persona perfettamente consapevole. Niente a che vedere con l’accanimento terapeutico, sempre inammissibile, vi sia o no un testamento biologico. Niente a che vedere con l’eutanasia attiva che, come ha ribadito il cardinal Martini, consiste in ‟un gesto che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte”.
In realtà, il testamento biologico rappresenta una delle tante modalità di governo della vita che hanno il loro fondamento nella libertà personale, nell’autonomia della persona. È un itinerario che si scorge limpidamente nella Costituzione, tra l’articolo 13 (libertà personale) e l’articolo 32 (diritto alla salute). In quest’ultimo articolo compare una affermazione particolarmente impegnativa. Si dice, infatti, che l’imposizione di trattamenti obbligatori, che può esser fatta solo per legge, non può "in nessun caso" varcare i limiti imposti dal "rispetto della persona umana". È, questa, una delle dichiarazioni più forti della nostra Costituzione, poiché pone al legislatore un limite invalicabile. Quando si giunge al nucleo duro dell’esistenza, alla necessità di rispettare la persona umana in quanto tale, siamo di fronte all’"indecidibile". Nessuna volontà esterna, fosse pure quella coralmente espressa da tutti i cittadini o da un Parlamento unanime, può prendere il posto di quella dell’interessato... Proprio questa incomprimibile autonomia di decisione si vuole confiscare, con una operazione di aggiramento che in questi giorni è divenuta manifesta. È tornata con prepotenza la formula della "indisponibilità della vita". Ma, trasferita dal mondo delle legittime convinzioni a quello delle regole, questa affermazione contrasta con i dati di realtà, che mostrano con assoluta chiarezza come si moltiplichino ormai i casi in cui, in particolare attraverso il legittimo rifiuto di cure, la persona dispone appunto della propria vita. Dobbiamo ricordare una volta di più il caso dei Testimoni di Geova, ai quali è stato riconosciuto il diritto di rifiutare le trasfusioni di sangue anche se ciò determina la morte, o quelli di persone che hanno preferito la morte all’amputazione di un arto? Emerge anche qui una situazione solo nelle apparenze paradossale. Si nega la disponibilità della vita all’interessato per riservarla al medico, qui davvero con rischi di derive, di crescente medicalizzazione della vita e di delega ai tecnici delle decisioni sull’esistenza. Una seconda confusione riguarda il modo in cui si discute intorno all’"abbandono" del paziente, quasi che vi sia un contrasto tra il testamento biologico, da una parte, e le cure palliative del dolore e i servizi alla persona morente, dall’altra. Poiché quel documento altro non è che una direttiva riguardante il modo in cui si vuol essere trattati in situazioni estreme, è evidente che tutto quanto consente alla persona di allontanare la sofferenza e di trovare vicinanza negli affetti e nella cura si colloca in una dimensione diversa, che esige l’assunzione di una responsabilità pubblica che, tuttavia, non interferisce nella libertà della persona. Se di questo si vuol discutere seriamente, e non per proporre un diversivo rispetto al tema del testamento biologico, si rifletta sul fatto che i centri antidolore sono appena 110, di cui soltanto 5 nel Mezzogiorno. E che i servizi ai morenti e alle loro famiglie richiedono investimenti, non tagli alle spese, non apologie del mercato. Si riprenda il filo della buona discussione avviata dalla Commissione Sanità del Senato con una serie di audizioni. E ci si concentri sui pochi, essenziali punti che servono per una legge che deve essere semplice e comprensibile. Si abbandoni la pretesa di regolare questioni diverse, come l’accanimento terapeutico o il rifiuto di cure. Ci si renda conto che non si tratta di disciplinare in generale il consenso informato, ma più semplicemente di fissare regole che consentano di accertare con precisione se, nel momento in cui stendeva il documento, la persona era capace. Si rinunci alla pretesa di fare del testamento biologico un obbligo per ogni cittadino, con comprensibili effetti di allarme, e ci si preoccupi piuttosto di non prevedere forme e procedure burocratiche, che scoraggerebbero le persone, e di non precludere la rilevanza di altri documenti dai quali tuttavia risulti con chiarezza la volontà dell’interessato. Si semplifichino al massimo le norme sul contenuto del documento, che deve poter riguardare qualsiasi tipo di trattamento (ogni limitazione contrasterebbe con il diritto generale di rifiutare le cure), la richiesta di cure palliative anche se accelerano la fine, eventuali disposizioni sul trapianto degli organi o l’assistenza religiosa. Per questo, invece che di testamento biologico che evoca soltanto l’aspetto della fine, si dovrebbe parlare di direttive anticipate, nelle quali si può esprimere l’intera visione che ciascuno ha della fase terminale della propria vita. Dovrebbe essere ovvio, inoltre, che gli effetti di queste direttive non possono essere rimesse alla valutazione discrezionale del medico o al parere di organi privi di legittimazione adeguata, quali sono i comitati etici. Si disciplini, piuttosto, la procedura di accertamento della incapacità, che rappresenta la condizione in presenza della quale le direttive anticipate producono i loro effetti. E si chiarisca la posizione di un eventuale fiduciario, al quale la persona affida la cura di sé per il tempo dell’incapacità, senza dimenticare che questa figura rientra già nel nostro sistema istituzionale da quando la legge sull’amministrazione di sostegno ha previsto appunto la possibilità di designare qualcuno che agisca o collabori con noi in situazioni di difficoltà. Quest’ultimo riferimento ci ricorda che il nostro sistema si è già incamminato proprio nella direzione di permettere a ciascuno di governare il proprio futuro. A questa normalità istituzionale va ricondotta la nuova legge, invece di usare la sua discussione come pretesto per guerre o guerricciole ideologiche, che fingono di voler rispettare l’umanità delle persone, e invece vogliono impadronirsene.

Stefano Rodotà

Stefano Rodotà (1933-2017) è stato professore emerito di Diritto civile all’Università di Roma “La Sapienza”. Ha insegnato in molte università straniere ed è stato parlamentare in Italia e in Europa. …