L'addio di Kurt Vonnegut alla vita

13 Aprile 2007
Come scriveva tempo fa John Irving in un suo sentito ritratto, c'è da essere sicuri che ogni qual volta Kurt Vonnegut si sentì affibbiare l'epiteto di luddista, scuotendo i riccioli chiari riuscì a stento a trattenere un sorriso compiaciuto sotto i baffi brizzolati. Con la setta di banditi sabotatori che nella Gran Bretagna dell'800 si diedero alla distruzione dei macchinari industriali e, implicitamente, alla contestazione di un sistema economico disumano e disumanizzante, Vonnegut - scomparso la notte scorsa all'età di ottantaquattro anni, in seguito ai postumi di una caduta - condivideva l'attitudine eversiva e umanitaria oltre a una naturale insofferenza per le strutture sociali codificate e condivise. Aveva inoltre, il physique du rôle del loro profeta Ned Ludd, affascinante com'era e abbastanza grosso da incutere timore.
Il passo che meglio rappresenta l'andamento dei suoi libri - sedici romanzi dal '52 ad oggi, più una raccolta di racconti e tre di saggi - la migliore epitome alla cadenza irrequieta della sua scrittura è certamente quella dello scarto: mentre la pagina sembra allinearsi a un sistema di segni convenzionali - siano quelli della fantascienza, dell'antiutopia orwelliana o del grotesque rabelaisiano - la sua fantasia ne distorce il senso e introduce il lettore, per vie impreviste, al significato più intimo e meno scontato della vicenda narrata. Scrittore viscerale, di passioni portate all'estremo, Vonnegut era non facile ma popolare, di un successo genuino e non indotto.
Se fosse nato altrove, osservava qualche anno addietro Goffredo Fofi introducendo l'edizione tascabile di Ghiaccio Nove, molto probabilmente lo scrittore di Indianapolis avrebbe aggiunto il proprio nome alla schiera di eminenze impervie come Borges o Arno Schmidt; eppure, anche per il rapporto tutto particolare che lega, in America, letteratura e grande pubblico, la complessità della sua visione non paga mai il dazio al messaggio morale che, ventenne fante esploratore, Vonnegut aveva tratto non dai libri (confesserà, infatti, di aver scoperto Blake a trentacinque anni, Flaubert a quaranta e Céline a quarantacinque), ma dalla tragica esperienza della seconda guerra mondiale. Di ritorno da quell'inferno e dopo avere pubblicato libri sonoramente trascurati dalla critica - con la sola eccezione dell'esordiente Piano meccanico (Player Piano, 1952) - Vonnegut sentiva di non essere ancora riuscito a sciogliere il nodo che gli si era stretto nella memoria da quando, il 13 febbraio del 1945, dopo essere stato catturato dai tedeschi nel corso della battaglia delle Ardenne, stipato come altri suoi commilitoni prigionieri negli scantinati di un mattatoio, aveva assistito al bombardamento di Dresda: ‟la prima città elegante che avessi mai visto, piena di statue e di giardini zoologici, come Parigi”. Certo, l'eco di quella tragedia si era già sentita in romanzi come Le Sirene di Titano (The Sirens of Titan, 1959) e Madre Notte (Mother Night, 1961), che più o meno esplicitamente prendevano spunto dalla catastrofe bellica (trasfigurata, nel primo caso, in un cataclisma spaziale, mentre nel secondo era vista dalla parte delle vittime-carnefici); ma Vonnegut sentiva di non essere ancora riuscito del tutto a esprimere i propri timori per le sorti del genere umano, sempre più vittima della propria furia cannibale. Per non replicare in un romanzo realista quello che sarebbe stato un dramma irrapresentabile gli serviva, però, la giusta chiave e questa, come spesso accade, gli fu fornita quasi per caso.
Di ritorno, nel '67, da un viaggio nella Dresda ricostruita (‟nel terreno dovevano esserci tonnellate di ossa umane”) quando Vonnegut espose a Bernard O'Hare, suo compagno di prigionia in quei giorni terribili, l'intenzione di scrivere un libro sull'esperienza che avevano condiviso facendone un'impresa memorabile per eroi come John Wayne e Frank Sinatra, la moglie di questi, Mary, lo redarguì bruscamente: ‟Ma quali John Wayne e Frank Sinatra” - disse - ‟se eravate dei bambini?” L'obiezione colpì profondamente l'esuberante Kurt: la tremenda verità della guerra era la morte, e la morte di un innocente, perché non esistono colpevoli in nessuna battaglia, è sempre equiparabile alla morte di un bambino. Nacque così Mattatoio n. 5, il capolavoro che, negli Stati Uniti dilaniati dallo scandalo del Vietnam, divenne (dopo Comma 22 di Joseph Heller) il manifesto della contestazione per i giovani bambini, che non potevano accettare, non volevano, una logica spietata di sangue e di sterminio. Non a caso, tenendo fede alla promessa fatta a Mary O'Hare, cui il romanzo è dedicato, Vonnegut lo sottotitolò La crociata dei bambini, mutuando l'espressione da Marcel Schwob.
Da allora, nei libri successivi e sulle pagine della rivista radicale ‟In These Times”, allo scrittore americano non è mai venuta meno la tensione civica e la forza di redarguire e stigmatizzare, con la grazia dell'ironia e la cortese autorità della sua esperienza, i misfatti dei potenti della terra (l'ultimo fu George W. Bush). Confermando come, talvolta, sia proprio la letteratura a illuminare quel che per la storia resta stupore e enigma.

Kurt Vonnegut

Kurt Vonnegut (Indianapolis, 1922 - New York, 2007) nacque in una famiglia colpita dalla Grande Depressione del ’29. Nel 1940 si iscrisse a biochimica all’università, poi andò sotto le armi …