Giorgio Bocca: Correvamo a torso nudo nel gelo

16 Maggio 2007
La sfida si ripeteva ogni mattino all’alza bandiera nel grande cortile della caserma della scuola allievi ufficiali alpini di Bassano. Noi allievi schierati a quadrato tutti con il cappello da vecio, piegato con acqua e palmo di mano perché fosse un cappello che aveva conosciuto piogge e tormenta, trincea e assalti al grido di Savoia, guardie notturne nel gelo o sotto il sole bruciante delle campagne coloniali. E lui, Balocco, davanti a noi con il suo cappello a cupola, cultore del Regolamento che noi alpini di leva di annata ignoravamo, quel suo cappello rotondo, senza una piega con la penna bianca diritta senza un taglio, senza una macchia. Lui, il grande vecchio, ci guardava da sotto la sua cupola con occhi fermi da sfida ma noi sapevamo che nessuno al mondo sarebbe riuscito a piegarci alla formalità del regolamento, il libricino con le norme che nessuno conosceva, che nessuno avrebbe seguito al campo o in guerra. E anche oggi quando vedo passare degli alpini con il cappello a pan di zucchero non mi convincono perché un militarismo senza errori, senza peccati, senza tradizioni un po’ sadiche e un po’ barbare non funziona. Negli alpini della mia stagione c’era il sadismo che occorre per far capire ai bocia che fare il soldato non è un gioco. Al corso preparatorio di Merano i sergenti di carriera delle valli bergamasche li facevano correre a torso nudo nel gelo di gennaio sugli argini dell’Adige. Obbligatorie le fasce mollettiere che ti stringevano i muscoli e le pezze che ti facevano sanguinare i piedi. Ogni sera prima della libera uscita la rivista all’uniforme e alle armi con il comandante di compagnia a cui non eri simpatico che trovava qualche granello di polvere alla canna del tuo fucile, qualche bottone mancante nella tua divisa, ma che ti abituavano alle assurdità e alle necessità della vita militare, al suo fatalismo attivo che chiamavano naja alla obbedienza ma non alla "obbedienza cadaverica" fino alla morte di cui parlava l’SS Eichmann al processo di Gerusalemme. No gli ufficiali degli alpini hanno sempre saputo che non potevano varcare con i loro soldati il limite dell’umanità, che fra loro e i loro soldati c’era più che un legame contadino e montanaro. I custodi di questa tradizione dura ma anche fraterna, esigente ma anche comprensiva, testarda ma anche aperta all’immaginazione erano i sottoufficiali firmaioli. Del mio essere stato alpino della Cuneense ricordo alcune cose fondamentali anche se difficili da capire oggi nel trionfo del politicamente corretto. Un certo orgoglio etnico, alpino, di essere nato e cresciuto in regioni forti e fedeli, un sentimento comune a giovani di tutte le classi, se volete ingenuo e a volte assurdo ma senza il quale non si formano le nazioni, non si fa la storia: il sentimento della patria che si intreccia con quello dell’onor militare per cui anche fra i ricchi e privilegiati si sente il dovere della libertà, dell’indipendenza e dell’onorato servizio. «I bei fioei van fè el sulda, i macacu restu a ca» è il modello di vita che veniva ricordato anche in casa Agnelli, un eco lontanissimo ma ancora presente di quello spartano un sentimento di solidarietà, di dovere che gli alpini hanno sempre conservato e che si ripete di generazione in generazione. La mia ha conosciuto la prova della guerra partigiana e credo di averci portato il mio segno di alpino: nel ‘44 a un convegno di partigiani del Giustizia e Libertà a Demonte in Valle Stura avanzai la proposta accettata di chiamare le nostre divisioni alpine e di avere come distintivo il fazzoletto verde colore delle nostre mostrine. Non il cappello a cupola che è l’antitesi di un corpo combattente dove nevica e piove.

Giorgio Bocca

Giorgio Bocca (Cuneo, 1920 - Milano, 2011) è stato tra i giornalisti italiani più noti e importanti. Ha ricevuto il premio Ilaria Alpi alla carriera nel 2008. Feltrinelli ha pubblicato …