Paolo Rumiz: La valle delle sorgenti perdute

20 Maggio 2007
Ha piovuto sette ore di fila ma tra gli strapiombi le cascate tacciono. Muto lo Scafòn dei Còi, muto il "rif" che scende dallo Spiz dal Muss, muti i rigagnoli sotto il Costòn de la Forca. Pioviggina sotto nubi negre, in quota le pietraie sono striate di neve fresca, sotto i duemila metri il cielo ha scaricato secchiate d’acqua, i canaloni dovrebbero grondare, diventare tuono selvaggio. Invece niente, silenzio ovunque. Tace lo Sbalz de la Vecia; la cascata sullo Sgraben mormora appena; i torrenti dei Lastè de qua e dei Lastè de là sono "uadi" pietrificati, fiumare, lebbra maledetta che divora i prati alti, pascoli incantati da Mago Merlino. La pestilenza che uccide i torrenti ora ha fatto il nido anche qui, nelle Alpi più segrete; sopra Moena, nella cattedrale di dolomia che inghiotte le voci e prende per questo il nome di Valsorda.
Giacomone De Francesco, boscaiolo di settantanove anni, è piccolo e stagno, ha mani grandi e occhi azzurri. Sale svelto come uno hobbit, ogni tanto si ferma, guarda, ascolta e scuote il capo. Batte la valle dal 1938, quando i genitori lo spedirono da solo a guardar le capre sui Lastè, ma una cosa del genere non l’ha vista mai. Sa bene che non è in pianura, ma in montagna che si misura la grande sete che arriva dal cielo. In posti così le tubazioni dell’Enel non arrivano, e nemmeno le idrovore della Padania ladrona. Qui l’uomo c’entra poco. Il cielo ha scaricato neve sulle cime e acqua in fondovalle, ma il bosco ha bevuto tutto, come una spugna, senza lasciar niente alla terra e alle falde. Ha bevuto perché ha la febbre, non ha conosciuto inverno. Quello del 2007 non è mai arrivato. E i tordi, che dovevano migrare a novembre, non sono passati nemmeno.
Per la gente di città la montagna è una cosa immobile. Per Giacomo no, è una bestia che si muove. Il boscaiolo sa che l’Alpe ‟prende forma”; che dietro ogni forma c’è un evento - grandi nevicate, frane, alluvioni, malattie del bosco, freddi eccezionali - e che dietro ogni evento c’è una data precisa. L’inverno del ‘17 nevicò novantun giorni su centoventi, gli raccontava suo padre. Il rogo della segheria fu nella primavera del ‘43, colpa degli alpini un po’ ciocchi e della loro cucina da campo. Il vecchio è all’erta, sente ogni minimo segnale di collasso. ‟Quel masso l’è novo, un mese fa no ghe era”, avverte inchiodandosi sul sentiero. E poi, traguardando la neve in quota: ‟Son trent’anni che non vedo valanghe”. Trenta esatti, non ventinove. L’ultima fu nel 1977. È come viaggiare con un libro di storia.
‟A dieci anni, quando andavo su dalle capre, ero sempre di corsa e mi guardavo sempre alle spalle per paura dell’orso. Avevo imparato a muovermi con la testa girata all’indietro… Non c’era anima viva, il brivido della solitudine mi faceva rizzare i capelli in testa”. È tutto cambiato nell’Alpe. La "brentana", la slavina di pietre che allora assestava la montagna ogni dieci-vent’anni, oggi si scatena annualmente, con la forza di uno tsunami, perché il riscaldamento planetario fa collassare i ghiaioni che per millenni son rimasti gelati e compatti nel profondo. Giacomone sa anche che a Moena o Predazzo la gente ha smesso di osservare queste cose. Gli ambientalisti hanno vita dura in Trentino. La valle vuole funivie, strade, alberghi, tutto il resto è un intralcio. Per questo il boscaiolo non molla. Appena può, sale a dare un’occhiata, anche se ha quasi ottant’anni. Va a far da sentinella, come gli alpini della Grande guerra.
Mattino, cielo incerto, umidità che ristagna. Partiamo a piedi dalla frazione Forno assieme a Luca Dellantonio, carpentiere di Moena, e il forestale Luigi Casanova di Cavalese. Risaliamo per la Cava, il canale di pietra costruito nel 1916 per far defluire a valle gli alberi abbattuti in quota. Qui, allora, era Austria-Ungheria e l’impianto lo fecero i russi catturati sul fronte polacco: un toboga dove i tronchi scortecciati, smussati, pezzatura standard di quattro metri e venti, filavano come missili. Si lavorava ai primi freddi, quando il gelo copriva di cristallo la pietra viva e la Cava diventava una pista di bob. Ogni cinquecento metri c’era una piazzola di controllo, a portata di voce di quella successiva, e se c’era un intoppo si urlava ‟Abaaauuff”, a squarciagola, per evitare ingorghi. Quando il treno deragliava, racconta, erano dolori.
Il vecchio sale, cammina a piccoli passi regolari, accarezza lo straordinario monumento alla storia alpina che lui ha curato per mezzo secolo e che le "magnifiche comunità ladine", farcite di pubblico denaro, lasciano franare nell’indifferenza. Ogni tanto raccoglie un sasso caduto nel canale, lo getta. Racconta: ‟Pensa un po’, lo spazzavamo con la scopa”. Giacomo De Francesco l’ha fatto per una vita e ora non può farne a meno. Spiega che ‟se il sasso si incarna nel legno, in segheria la lama si spacca”. Non fa niente se da anni nessuno usa più l’autostrada dei tronchi: lui vuol dire solo che c’è un legame tra il collasso meteorologico globale e la mancata manutenzione del bosco. Sa che c’è un segreto parallelismo tra la scomparsa dei nomi e delle acque. Per questo nomina ogni anfratto. Piana da Casòn, Valòn dai Còi, Schenòn, Posta dei Ponti Alti.
Non è un elenco: è un atto battesimale. Il vecchio teme che, assieme a lui, spariscano anche i toponimi e, con loro, l’anima dei luoghi. Valfredda, Crepa Neigra, Cima di Malinvern. Li ripete per esorcismo, per costruire un’ultima diga contro lo sfascio, per passare ad altri la memoria, e magari seminare una briciola di sé. ‟Se avessero ascoltato quelli come lui - sussurra con reverenza l’uomo della forestale - gli ingegneri non avrebbero mai costruito la diga del Vajont. I vecchi avrebbero avvertito che il monte sarebbe franato”. Anche lì, sopra Longarone, il nome parlava da solo. "Toc" vuol dire "pezzo", montagna in bilico, roba che vien giù. E difatti il Toc venne giù. Divenne la più grande frana dell’era moderna.
In basso, il torrentone di fondovalle, che corre parallelo alla Cava, è già in sofferenza. Smottamenti mai sgomberati, accumuli di rami e alberi sradicati che presto faranno diga con la ghiaia, preparando il detonatore delle "brentane" prossime venture. ‟Se desfa tutt - brontola De Francesco - l’è sempre peggio sta Valsorda”. Ma il peggio è il silenzio. L’acqua dovrebbe scrosciare, tuonare tra i massi, e invece niente. C’è solo un chiacchiericcio argentino, di pianura. Fa troppo caldo. Da dieci anni lo zero termico non ha fatto che salire. Nel bosco l’afa ristagna, ma anche dopo la pioggia gli scarponi restano asciutti. L’erba è alta, per assenza di pascolo, e le fragole sono scomparse. Gli abeti non gocciolano, sono già secchi. Molti hanno la "rogna", un parassita che qui chiamano "Bècherle", alias Yps Typògraphus. Epidemie fulminanti, che scorticano anche le piante forti, falcidiano in dieci giorni popolazioni di tre-quattrocento esemplari. Verso la Costa di Viezze, sopra Cavalese, lato sudest della valle, è come se un lanciafiamme extraterrestre avesse raschiato il bosco, aprendo irregolari smagliature.
In Valsorda il silenzio delle sorgenti comincia dopo due guadi, sui millecinquecento metri. È come varcare una frontiera invisibile. Acqua benedetta è il nome della prima fonte perduta. Un anno fa formava una pozza a lato del sentiero, perfetta per rabboccare le borracce, e da lì partiva un rio che poi confluiva nel torrentone sopra i Ponti dei Scùri. Oggi, nelle ghiaie in pendenza, ai margini del bosco, c’è solo una traccia minima di umidità; neanche lo spazio per avvicinare la bocca. Dio ha fatto diluviare per ore, ma persino l’acqua che celebra il suo nome è scomparsa. Intorno, una cornice floreale stupenda e inutile. Un abete formato bonsai, ciuffi d’erica, lamponi selvatici, piante medicinali note ai boscaioli: l’erba fàrfara, ‟magico espettorante”; il ranuncolo giallo d’alta quota; la primula vistosa, da cui si trarrebbero favolose tisane dissetanti.
‟Chissà se c’è acqua nella sorgente della Pala Scura”, chiede a se stesso il vecchio, inforcando il binocolo. La Pala Scura, eccola lassù, in mezzo alle nubi, incassata sotto il Latemar, dove ‟un abitante de Medìl - racconta - el ga copà l’ultimo orso col s’ciop a l’avancarica”. Storie di metà Ottocento, narrategli dal nonno, ma che facevano ancora notizia tra le due guerre mondiali. Il binocolo esplora ancora più in alto, tra il Valòn dei Còi e il Colinòn, sotto lo squarcio blu genziana che s’è appena aperto nelle nubi. Lassù, ride, c’è la conca dove il Felicetti Gioacchino si lasciò scappare sette camosci in una volta sola, battendo ogni record di scalogna venatoria. Passiamo la Baita Valsorda, le praterie dei Tièser, imbocchiamo un canalone, dritti su in linea di massima pendenza, con Giacomone che morde il pendio senza fiatone, senza passi falsi, senza smettere di raccontare. Diavolo d’un uomo, ha spostato migliaia di tonnellate di tronchi e non ha un briciolo di mal di schiena. Ride: ‟Se te me domandi come che l’è fatt, no so miga”.
Sopra c’era la cascata dei Gradienti. ‟C’era”, ripete il boscaiolo, perché stavolta c’è solo una ragnatela di bave di ragno. Al posto delle canne d’organo d’acqua piena, fili d’argento appesi a una grondaia di balze rossastre, inghiottiti poco più sotto da un materasso di muschio smeraldo. Accanto, nella foresta, mascelle di cervo ripulite dalle intemperie, candide come ossi di seppia. ‟Un zoven”, dice il vecchio guardando i denti: un giovane esemplare. E intanto fischia il fringuello dal becco in croce, un attrezzo sghembo che fa da cavatappi per scucchiaiare le pigne di abete. Ora tagliamo a mezzacosta verso destra su un vecchio sentiero, il Troi del Marciò, e sbuchiamo davanti alla Baita delle Casere, grande madre dei formaggi d’alpeggio. Lì tutto si apre, negli ultimi pascoli, con una gran vista sulle muraglie che chiudono la valle a occidente. Almeno qui, in questa straordinaria abside di roccia, tutte le acque del Latemar dovrebbero grondare a cascata, ingolfarsi, formare un’unica valanga d’acqua tra i larici.
Invece niente. Al posto dell’acqua, fiumi di pietra. Quattro letti deserti, quattro serpentoni di ghiaie lunari che scendono con curve da autodromo giù dalla Pala Scura, dalla Val de la Vecia, dai Lastè de qua e i Lastè de là, per confluire in un unico greto in mezzo agli ultimi pascoli. ‟La Pala Scura no l’è più scura - brontola il boscaiolo - l’è una slavina de piera”. Silenzio perfetto. Tutto tace, persino la gigantesca cascata sotto il Colinòn. Tacciono i campanacci della vacche che nessuno porta più in quota. Ha ripreso a piovigginare, ma l’assenza di rumore è così totale che potresti sentire il richiamo del Salvanèl, il folletto burlone che batte le creste e i canaloni. Solo dopo cinque minuti arriva un rombo che cresce, ma non è il tuono, è il Globale che ci sorvola. Un jet a quota diecimila che passa sopra le nubi. Ne passano a centinaia ogni giorno, sopra la sconosciuta Valsorda.
Tagliamo sul lato sinistro della valle alla ricerca di altre sorgenti. Il bosco è butterato di escrementi di cervo, piccole palle da rugby color grigio-fucile. Giacomone fa strada gagliardo, è felice che finalmente qualcuno ascolti le sue storie. Ormai cerchiamo l’uscita della valle che inghiotte le voci. Dopo il pulpito del Fraton, segnato da due larici, nella scura Val da Maudie dovrebbero esserci sette fonti. Ne troviamo solo tre: il Toal de l’ega, la Val dai strenti e la sorgente dai Codèri: sono quasi vuote, formano un rigagnolo che taglia il sentiero. Ma già raggiungiamo un secondo pulpito, un piccolo eden coperto di muschio sotto una fascia di strapiombi. Un fantastico balcone: la parete, ad altezza d’uomo, è coperta di piccole scritte rossastre graffiate con pietruzze dello stesso colore.
Leggo: ‟Oggi una saetta ha ucciso sette pecore”. Un metro più in là: ‟La Madonna mi ha aiutato nel temporale”. Due secoli di storia incisi dai pastori nei momenti di solitudine. Date: 1888, 1913, 1968. Molte le sigle, ‟Dsv”, ‟Sfffd”, ‟Ad”; e un nome in perfetto stampatello: ‟Teresa Valdinon”. Un altro canalone, poi il Col da le Melestre, cioè dei sorbi rossi. ‟Quest’anno le bacche sono rimaste sugli alberi tre mesi in più”, osserva l’uomo della forestale. Fa un caldo innaturale, su tutti noi incombe la certezza di un evento biblico. Ma ormai il vecchio accelera, è vicino a Medil, il suo paese natale, oggi soprannominato ‟paradiso delle femmine” perché di femmine ne sono rimaste due soltanto. Non gli leggi l’età, al boscaiolo. Unico segno: le mani, grosse e rugose come pale di caterpillar.
Ora i prati scendono verso l’Avisio. ‟Li facevo di corsa in salita - racconta Giacomone - alla fine dell’orario scolastico, tanta era la fame che avevo tornando a casa. Capivo cosa c’era in pignatta già in fondovalle”. Scendiamo sotto l’abitato, in cerca delle ultime sorgenti. Ce n’erano due, si chiamavano da Vestil, dal nome fassano del bucato. Vuote, estinte anche loro. Il prato ha tombato tutto, neanche un occhio allenato potrebbe trovarle. ‟Qui era pieno di ramarri stupendi, gialli e verdi, una volta ne ho portato uno a scuola, aveva due code”. Oggi sono finiti anche i ramarri. L’erba ha altri inquilini, altre abitatrici. Le senti nel silenzio. Chiamano furiose, come se fosse estate piena, come se le Alpi fossero Grecia e la Valsorda un sobborgo di Istanbul. Cicale. Migliaia di cicale, dal desertico richiamo, capaci di tutto, come le locuste degli ebrei d’Egitto, anche di riportare l’eco nella valle senza i rumori.

Paolo Rumiz

Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …