Giorgio Bocca: Se torna l' inverno buio e freddo

19 Novembre 2007
Com’erano le neiges d’antan? Gl’inverni freddi prima del gasolio e della nafta? Molto diversi da quelli di oggi e molto condizionanti sulla nostra vita. Gli inverni cambiavano la distribuzione di una casa. In pratica una sola stanza veniva usata durante il giorno: la cucina, in questa stanza, abbandonato il camino dominava la modernità della cucina economica, un cubo di ghisa di vari fornelli che contemporaneamente procurava la brace, la fiamma per cuocere i cibi e l’acqua calda. Gl’inverni mutavano completamente l’aspetto delle città. La neve rimaneva sui tetti, dai cornicioni pendevano i candelotti di ghiaccio, nelle strade si formavano le piste di ghiaccio, lungo lo scolo delle acque. Il ghiaccio era visibile dovunque: attorno alle fontanelle, lungo i canali e sul fiume. L’inverno era annunciato dai suoi indumenti: c’erano calze e guanti di lana, alcuni dei quali con le dita tagliate in modo da poter permettere il lavoro, c’erano mutande di lana, berretti da notte di lana; un intero guardaroba che doveva essere difeso durante l’estate dalle tarme e tenuto pronto per l’inverno. La neve, oggi quasi assente dalle nostre città, era un avvenimento che segnava la vita della collettività, un impegno comune e un comune lavoro. Nella notte in cui nevicava i municipi convocavano i disoccupati per farne degli spalatori, alcuni venivano impegnati a scaricare la neve dai tetti, altri per gettarla nell’acqua di una bealera che veniva aperta nella via principale. Le nevicate rappresentavano una sfida comune, un destino comune per tutta una provincia: nevicava su tutti i villaggi, su tutti i campanili, e dovunque bisognava aprire le strade, fare parte delle corvée. Le corvée erano indispensabili nelle valli alpine, c’era un capo corvée in ogni villaggio, e quando il capo dava l’ordine di partire, uno per famiglia, bisognava partire. Chi aveva il mulo lo metteva con la slitta. Il mulo contava come una persona, una persona come il mulo, come due giorni di corvée. Veniva usata la slitta grande del fieno per fare la strada più larga. Bisognava portare sempre la pista all’altezza della neve perché la tormenta non la riempisse. Quelli davanti incominciavano a spalare, e poi quelli dietro riempivano di nuovo la pista, schiacciavano la neve con le pale, ci passavano sopra lo slittone e così teneva, se no con la tormenta non durava. Un modo per vivere negli inverni di montagna era fare un po’di contrabbando. Quando hanno dato la Savoia alla Francia e hanno chiuso il Col de Mont in Valgrisenche, qui era Italia e di là Francia, ma era la stessa cosa di prima, i valdostani compravano le mucche in Francia perché erano meno care, e loro le nostre capre e i nostri montoni. A un certo punto è arrivata la strada ad Aosta e il contrabbando è finito. Si occupavano degli inverni i proverbi popolari: se il tal giorno fosse nevicato sarebbe nevicato per «quaranta dì e 'na smana’». C’erano anche i mali del freddo, oggi completamente dimenticati: le «bollite» delle mani e dei piedi, che passando dal gelo al caldo procuravano dolori acuti. C’erano i segni del freddo: le fontane ghiacciate, e lungo tutte le strade non asfaltate si formavano le «sghiarole», le piste ghiacciate su cui scivolavamo. Il rapporto con l’inverno nevoso era inevitabile: la neve si fermava sulle strade e gli spazzaneve la compattavano sicché io, ragazzino, per andare a sciare scendevo con sci e racchette da casa mia, m’infilavo gli sci e raggiungevo i pendii del Campidoglio nelle basse lungo la Stura. La neve rappresentava un mutamento totale del mondo e alimentava le nostre fantasie di ragazzi: una ricorrente era che una nevicata abbondante ci bloccasse in qualche luogo della montagna in modo da evitare la scuola per una quindicina di giorni. C’erano ancora le leggende dell’inverno: qualcuno raccontava di aver incontrato dei lupi alla cantoniera del Bragar, sopra Limone, altri di averli sentiti ululare sul greto della Stura. Il mio sogno da adolescente era di poter fare una gara di sci da Cuneo a Torino, su un rettilineo di ottanta chilometri che passava campi, città e sognavo spesso una montagna coperta di neve nelle Alpi tra Cuneo e il mare, in cui scendevo a curve lente con una facilità stupenda e l’ho cercata spesso senza riuscire a trovarla.

Giorgio Bocca

Giorgio Bocca (Cuneo, 1920 - Milano, 2011) è stato tra i giornalisti italiani più noti e importanti. Ha ricevuto il premio Ilaria Alpi alla carriera nel 2008. Feltrinelli ha pubblicato …