Marco D'Eramo: Ping pong elettorale tra Italia e Usa

11 Marzo 2008
Di questi giorni viene spontaneo confrontare le nostre elezioni politiche alle primarie statunitensi: nella stampa il paragone serpeggia, quando non è richiamato più che esplicitamente.
C'è chi, nel campo di Walter Veltroni, anela a identificare il proprio leader con Barack Obama, grazie anche al celebre verbo ausiliare autonomizzatosi negli slogan politici: I can, o We can, a seconda delle versioni (negli Stati uniti d'America We can è il nome dell'associazione dei senza tetto che si guadagna da vivere raccogliendo lattine vuote, cioè cans. Sarebbe originale, segno di vera novità, un Partito democratico il cui slogan fosse ‟Io lattina”).
In un incontro pubblico Sandro Portelli e io siamo stati accusati di denigrare Barack Obama e il suo afflato bipartisan solo ‟per odio a Veltroni”: ma vogliamo scherzare? Con tutte le molle con cui va preso il senatore dell'Illinois, il cui inno al ‟cambiamento” è di una vaghezza per lo meno sospetta, non c'è però paragone (per nostra sfortuna) con il Walter nazionale: dove le vedete le frotte di studenti liceali, le coorti di universitari che si offrono volontari a Veltroni per andare a fare campagna porta a porta a Ceppaloni, scavalcare immondizie nell'hinterland napoletano o sfidare i leghisti in Valtellina? Vedete forse giovani signore in trance svenire a ogni comizio dell'ex sindaco di Roma (visto che la domanda ‟C'è un medico in sala?” è diventata un appuntamento fisso nei meeting di Obama)? Se c'è una cosa che separa le primarie Usa dalle nostre elezioni è proprio l'entusiasmo, il coinvolgimento.

I veri analfabeti della politica
E questo ci porta al secondo genere di confronto elargitoci con spocchiosa saccenza dai nostalgici del ‟caso italiano”. Forse i giovani non se lo ricordano, o non l'hanno mai saputo. Ma c'è stato un periodo in cui l'Italia (e in particolare la sinistra italiana) dava lezioni di politica al mondo perché avevamo il partito comunista più autonomo da Mosca e perché la nostra era la classe operaia più combattiva e più forte d'Europa. A posteriori ci siamo accorti che il nostro Pci era tanto autonomo dall'Urss che, appena caduto il muro di Berlino, ha sentito l'impellente bisogno di cambiare nome, statuto e ragione sociale, e che in realtà avevamo preso per forza di classe del proletariato italiano quella che era debolezza e inconsistenza della nostra borghesia (se mai i nostri ricchi sono assurti a quel che Marx chiamava una ‟classe”).
Se agli occhi dell'Europa oggi l'Italia costituisce un caso, è grazie a Silvio Berlusconi - che il sagace popolo italiano, davvero unico al mondo, sta per riportare al potere per la terza volta -, all'emergenza spazzatura in una regione governata dalla sinistra da quindici anni, e alla supina acquiescienza della nostra ‟borghesia laica” nei confronti del Vaticano, che ci riporta ai bei tempi dello stato pontificio. Che importa? Ci è rimasto il vizio d'impartire lezioni politiche urbi et orbi. E poi è irresistibile la tentazione di catechizzare il paese più potente del mondo: la sindrome di noi nuovi raffinati elleni precettori di voi nuovi rudi romani (della serie ‟Io Jane, tu Tarzan; io Venere, tu Marte”).
Per questi nostri luminari è scontato che gli statunitensi siano analfabeti politici di fronte a noi che discendiamo da Gramsci e Machiavelli, che il loro processo di selezione politica sia solo show business, lustrini e spot, mentre il nostro sarebbe un vero confronto di idee tra politiche alternative.
Noi sì che siamo coscienti della struttura di classe del nostro paese. Basta prendere i sondaggi che ci affliggono e affliggeranno fino al 13 aprile, e confrontarli con i sondaggi statunitensi. Fin dall'inizio negli Usa ci viene spiegato a colpi di percentuali che il blocco sociale che vota Hillary Clinton è costituito in maggioranza da donne, da persone anziane (sopra i 50) da famiglie che guadagnano meno di 40.000 dollari l'anno, da persone senza titoli di studio superiore, dalla minoranza ispanica. E ci dicono invece che Obama è votato soprattutto dai giovani, dai laureati, dai redditi medioalti, dai neri, dai maschi bianchi: una coalizione di razza e di quelli che vengono definiti i ‟Starbucks democrats”, dal nome della catena di caffè pregiato, luogo di studio per studenti e di pausa per colletti bianchi.

I sondaggi senza profilo sociale
La nozione che dietro ogni candidatura ci sia un blocco sociale che lo sostiene (e che il candidato debba fare gli interessi di questo blocco) è talmente scontata che ogni giorno i giornali si chiedono se la tale coalizione sociale si sta sfaldando, oppure se tiene, se si rinforza, se uno dei due opera sfondamenti nel campo dell'altro. Questo nella politicamente analfabeta America.
Vediamo nella scafatissima Italia: qualcuno ci ha forse mai rivelato in un sondaggio il profilo sociale di chi vota per Veltroni o per Berlusconi? Sappiamo se le donne votano più a destra o a sinistra? Sappiamo come votano i redditi medio-alti e quelli medio-bassi? E le fasce d'età come si comportano? In che modo il voto dipende dal livello d'istruzione? Mistero. L'immagine del voto che ci viene rinviata dallo specchio dei sondaggi è quella di un paese indistinto, di un magma informe, la cui unica variabile riconosciuta è territoriale (regioni rosse, nord-est,...). Un flou artistico, non proprio disinteressato, circonda il profilo sociale dei due campi, centrodestra e centrosinistra. Questo flou consente di fare gli interessi del ‟paese”, di parlare in nome dell'‟azienda Italia” e non delle basi sociali cui ogni campo dovrebbe rispondere. Mica siamo come quei semplicioni di americani per cui ogni eletto dovrebbe ‟passare alla consegna” (deliver) e favorire gli interessi di chi lo ha votato (la ‟consegna”, che io sappia, è un metodo riconosciuto ufficialmente solo per la mafia in Sicilia).
Come disse indignato quel leader della sinistra italiana che voleva condannare gli ‟eccessi di laicismo”: ‟Mica siamo nella Spagna di Zapatero qui!”

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …