Marco D'Eramo: Presidenziali USA. Il culto pericoloso del Kennedy nero

08 Settembre 2008
Il fantasma di John Kerry aleggia sulla Convention democratica. Incombe su di essa il ricordo della disastrosa campagna elettorale del 2004, e ben lo si avverte dalle discussioni in diretta sulle radio più militanti. Per rendersene conto basta allontanarsi di otto km dal Centro Pepsi e andare in un moderno studio tv dove i repubblicani lanciano le loro azioni di disturbo per sottrarre ai democratici le luci della ribalta. Lì una squadra d'assalto repubblicana prepara trasmissioni ed eventi di disturbo. Hanno organizzato una conferenza stampa in cui sostenitrici di Hillary dicono che voteranno per McCain; hanno impacchettato tre spot che citano le dure critiche rivolte da Hillary Clinton a Obama durante la combattuta stagione delle primarie. In uno spot viene citata la frase di Hillary: «Il senatore McCain porterà nella compagna l'esperienza di una vita. Io porterò l'esperienza di una vita», sottinteso: Obama è inesperto. I repubblicani hanno organizzato anche un cocktail party intitolato «Happy hour for Hillary» seguito da un'apparizione di John McCain in uno dei più importanti talk shows.
Fino a ora una tacita convenzione obbligava ogni partito a rimanere in ombra durante la Convention dell'altro. Questo accordo aveva retto anche alla velenosissima campagna del 2004 quando il consigliere di Gorge Bush, Karl Rove, non aveva esitato a usare le armi più sporche e i colpi più bassi pur di affondare John Kerry. Ma anche allora aveva retto la tregua durante le Conventions. Stavolta invece no, e già questo semplice fatto dà la misura della violenza cui assisteremo nei due mesi a venire. Ed è qui che incombe il fantasma di Kerry. Perché allora, di fronte agli attacchi più sanguinosi, Kerry non andò mai al contrattacco; non aggredì mai i repubblicani; durante la Convention quasi non nominò il nome di Bush (ricorda qualcosa in Italia questa strategia di non nominare l'avversario, fosse anche Berlusconi?), ma il partito passò il suo tempo a costruire un (effimero e fragilissimo) monumento al passato eroismo militare di Kerry, più che a demolire l'immagine di un presidente che ne aveva fatte, e ne stava facendo, di cotte e di crude. Col risultato che una campagna che avrebbe dovuto essere centrata su Bush e sui suoi misfatti, fu invece interamente puntata sulla figura di Kerry. Bastò allora ai repubblicani riuscissero a metterne in dubbio le passate gesta, perché tutto l'edificio crollasse come un castello di sabbia.
Dalle prime battute della Convention qui a Denver sembra che i democratici non abbiano imparato nulla dalle lezione del 2004. Infatti mentre le truppe d'assalto repubblicane li azzannano alla giugulare con spot diffusi ovunque sulla rete e nelle tv locali, dal podio della Convention non si è giunto finora un solo attacco convinto e convincente contro McCain e contro i repubblicani. Il ritornello è sempre che «è ora di cambiare pagina», che «l'economia è messa male», ma degli attacchi feroci e mirati di cui i repubblicani sono specialisti, qui non se ne vede traccia. Ricordo ancora alla convention repubblicana di New York nel 2004 i vari Cheney e Rumsfeld scatenati su Kerry che «è ora contro una guerra per cui aveva votato a favore dopo essere già stato contro». Kerry fu seppellito dal nomignolo «flip-flop» (che designa anche i sandali infradito).
Pare che i democratici stiano seguendo esattamente la stessa strategia suicidaria. Si preoccupano solo di costruire un monumento a Obama, ignorando del tutto i loro avversari. In questa santificazione del proprio candidato sono anche facilitati dal (pericoloso) culto della personalità che si è andato aggregando intorno al candidato. Gli stessi poster di Obama scelti dalla Convention flirtano scherzosamente con il realismo socialista e le assunzioni al cielo di Kim il Sung. Anche le t-shirts con le immagini appaiate di Obama e Martin Luther King fanno tanto santino, soprattutto dopo la scoperta dell'apparente complotto per uccidere il candidato democratico. Fiutando il pericolo, ora Obama cerca di prendere le distanze da questo culto della personalità che tanto gli fu utile durante le primarie, ma che ora gli si ritorce contro. Ma non è facile arginare un fenomeno che lui stesso ha fomentato. Anche la presentazione che Caroline Kennedy Schlossberg ne ha fatto, alimenta tale culto quando fa di Obama «un nuovo Kennedy nero».
Il primo boomerang di questa strategia - di sovresporre il candidato e sottoaggredire l'avversario - è visibile nella posizione difensiva assunta da Michelle Obama. Tanto più che nel frattempo continuano frenetiche le ultime trattative segrete con i Clinton. Al di là dell'incrollabile sostegno di facciata che la Clinton gli ha tributato ieri sera, Obama sa bene che se Hillary non sarà implicata in pieno nella campagna, per lui i rischi di perdere sono forti. E Hillary vuole almeno o la presidenza del senato, o un seggio di giudice della Sorte suprema o il Dipartimento di Stato. Ma Obama non è pronto a darle tanto. Se la Convention è una grande rappresentazione teatrale, a contare davvero è quel che succede dietro le quinte. E la decisione di collocare oggi il discorso di Bill Clinton non in prima serata, non contribuisce certo a diluire i veleni.

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …