Marco D'Eramo: Presidenziali USA. La parola a Obama

08 Settembre 2008
Adesso sta solo a lui. Saranno le sue parole, stanotte alle quattro del mattino ora italiana, in uno stadio da calcio, davanti a 75.000 spettatori, a dirci se questa Convention democratica sarà stata un successo. O se invece si rivelerà un flop clamoroso, come quello registrato nel 2004 quando quattro interi giorni di intensa copertura mediatica non fecero avanzare nemmeno di un punticino la popolarità di John Kerry.
Sempre l'onere della prova ricade sul candidato, ma stavolta è un vero macigno che si deve sobbarcare, proprio per come sono andati i primi tre giorni di Convention. Un partito all'opposizione da otto anni, deve fare delle elezioni un referendum popolare sull'amministrazione uscente, su George Bush e sul suo successore designato, John McCain. Invece, come già nel 2004, questa Convention ha costruito uno scenario per cui il voto del 4 novembre sarà un referendum sì, ma su Barack Obama. Quest'autolesionismo è certo dovuto alla storica incapacità dei democratici di imparare la lezione. Ma una parte di responsabilità ricade sullo stesso Obama, sul suo stile di campagna bipartisan.
Il discorso di stasera dovrà perciò imprimere una svolta decisiva, di tono e di contenuto, se Obama vorrà invertire il lento, ma costante declino nei sondaggi che ha eroso il suo vantaggio su McCain. Di tono: l'Obama delle primarie ha vinto grazie al timbro messianico, al messaggio - letteralmente - palingenetico: la promessa di una nuova era. Il sol dell'avvenire versione Harvard. Quest'intonazione profetica è stata possibile solo grazie a una voluta vaghezza politica. Il cambiamento era invocato a ogni piè sospinto, ma senza mai precisare cosa e come cambiare. L'affermazione «Io sono il futuro» non poteva sminuirsi in prosaiche specificazioni di quale futuro stiamo parlando. Questa strategia gli è valsa la vittoria contro Hillary Clinton, che con questa semplice mossa Obama ha relegato per sempre in un passato da cui lei non è mai più riuscita ad emergere.
Il problema però è che i primi tre giorni di Convention democratica si sono attestati sulla stessa indeterminazione. Quasi per niente si è parlato di Iraq e Afghanistan, e il tema del disimpegno militare è rimasto soffuso di vaghezza. Molto si è deprecata la cattiva salute dell'economia Usa. Ma quanto alle misure concrete e mirate che un Obama presidente adotterà, non se ne ha il minimo indizio. Molto si è invocata una riforma sanitaria, ma ormai la promessa democratica di un servizio sanitario nazionale somiglia sempre più alla promessa repubblicana di abrogare l'aborto: mulete rosse sventolate in faccia ai propri militanti infuriati, senza però mai passare alla consegna, anzi guardandosene bene. Sta perciò a Obama di raddrizzare una fiacca Convention, tocca a lui plasmare e dare corpo a una promessa di cambiamento finora informe. Se non ci riuscirà, saranno guai per tutti: non sono solo gli americani a non potersi permettere altri quattro anni di bushismo, siamo tutti noi. Se Obama perde, ci tocca cambiare pianeta.

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …