Marco D'Eramo: Presidenziali USA. L'ombra di Hillary

08 Settembre 2008
Il sipario si è alzato sulla Convention Democratica di Denver. Se l'elezione presidenziale è il momento più teatrale della vita politica americana, le Conventions, democratica e repubblicana, sono l'evento più teatrale della campagna presidenziale. Spettacolo dello spettacolo e nello spettacolo, destinato a galvanizzare i propri militanti, a portare i candidati in ogni casa d'America attraverso notiziari assillanti e ininterrotti. Non per nulla le sedute plenarie si tengono sempre dopo cena (cioè dalle 18), in prima serata televisiva. Da decenni ormai la Convention non è più il luogo dove si decide il ticket presidenziale o la piattaforma del partito, ma è la cerimonia d'incoronazione del candidato: per i cultori di studi classici, la Convention è la sua apoteosi.
Tanto più doveva esserlo per Barack Obama che è giunto qui in Colorado preceduto e soffuso da un vero e proprio culto della personalità che ha generato un florido merchandising di calzini, magliette, bandane e poster: proprio per questo era così perfido lo spot ideato da Karl Rove che lo paragonava a Paris Hilton, perché colpiva un punto delicato, e cioè la sua assimilazione più a una pop star, «una via di mezzo tra il Dalai Lama e Johnny Depp», come ha scritto la columnist del New York Times Maureen Dowd.
Dopo la cavalcata trionfale delle primarie, la Convention doveva essere il trampolino più elastico per lanciarlo nell'ultimo, frenetico trimestre di campagna. Così non è stato. L'ultimo sondaggio Cnn, pubblicato domenica notte, dà Obama alla pari con John McCain, quando un mese fa lo stesso sondaggio gli attribuiva un vantaggio di 7 punti. La scelta di Joe Biden come candidato alla vicepresidenza non ha portato a Obama nessun vantaggio, anche se Biden è stimato e considerato il miglior partner possibile.
Il problema - che nessuno, ma proprio nessuno si sarebbe mai aspettato - è che Obama e il partito democratico si presentano a questa Convention sulla difensiva. La stessa scelta di Biden è difensiva, mirata a neutralizzare obiezioni («Obama non ha abbastanza esperienza, è un pivello, non è affidabile come comandante in capo delle forze armate») più che a conquistare nuovi elettori e allargare la propria base. Eppure doveva essere - e forse sarà ancora - l'anno dei democratici: con l'inquilino uscente della Casa bianca ormai considerato all'unanimità il peggiore presidente della storia degli Stati uniti, con un'economia alle corde, la benzina a quattro dollari a gallone, con quasi un milione di miliardi di dollari già buttato in due guerre che di cui nessuno vede la fine e che nessuno sa cosa voglia esattamente dire «vincerle». Come ha scritto un editorialista: «Se i democratici non vincono neanche stavolta, è meglio che cambiano mestiere».
Il problema però non è tanto il partito democratico nel suo insieme, che nei sondaggi è ancora largamente in testa per il senato e la camera, quanto proprio Barack Obama. E per due ragioni. Da un lato, a smentire l'immagine idillica propagandata dalle anime belle della sinistra mondiale, appare sempre più chiaro che dal tema della razza l'America profonda è ancora molto più spaccata di quanto voglia ammettere. Nell'elettorato nel suo complesso un candidato nero, o meglio «un po' nero», incontra molta più resistenza e pregiudizi di quanti avesse dovuto sormontarne nelle primarie dove a votare erano solo i democratici convinti, i militanti per lo più puri e duri. Dall'altro lato, la vaghezza delle proposte obamiane («mi vedo come uno schermo bianco» aveva detto lui stesso), che tanto fruttuosa si era rivelata nelle primarie, adesso rischia di ritorcersi contro di lui. Solo sull'Iraq Obama aveva assunto una posizione netta (che d'altronde ha in seguito annacquato assai), ma l'Iraq viene ormai al quarto posto nelle preoccupazioni principali degli statunitensi, preceduto - e di parecchio - da economia, energia e salute.
Le ricette economiche di Obama non hanno per ora convinto gli americani: troppo liberiste per i progressisti (Obama non ha mai nascosto la sua ammirazione per alcuni aspetti della deregulation reaganiana), troppo stataliste per altri (vuole riaumentare le tasse dei super-ricchi e tagliare le tasse al ceto medio). Il primo obiettivo di questa Convention è quindi lanciare un messaggio forte sull'economia. Resta da vedere se i democratici ne saranno capaci.
Il secondo obiettivo è restaurare l'unità del partito. Non per nulla, prima ancora che la Convention iniziasse, la figura protagonista era non Obama, ma Hillary Clinton. Nel rituale delle Conventions vi sono alcuni luoghi retorici che da sempre si ripetono ogni quattro anni, con puntualità svizzera. Il primo è che «questa è la campagna presidenziale più importante dell'ultimo secolo»; il secondo è che «mai la mobilitazione è stata più grande e mai come questa volta l'attivismo dei militanti porterà i giovani alle urne in misura inaudita»; il terzo è che « stavolta il partito si presenta all'appuntamento decisivo del voto, unito e compatto come mai era successo in precedenza».
Già da ieri l'unità del partito è stata il ritornello di tutti gli interventi. Il vecchio e malato Ted Kennedy si è precipitato a Denver contro il parere dei medici, proprio per cercare di sanare la frattura tra clintoniani ed obamiani. Alla fine, l'unità di facciata si farà e salirà al cielo come i palloncini colorati che di rito concludono le conventions. Ma la vera posta in gioco è vedere quanto sarà reale quando il sipario sarà calato su Denver.

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …