Marco D'Eramo: Presidenziali USA. Domani sarebbe Obama

09 Settembre 2008
Se le elezioni rispecchiassero le due Convention, democratica e repubblicana, per Barack Obama da qui a novembre sarebbe solo una marcia trionfale. Quella repubblicana è stata un fiasco e John McCain si è dimostrato il candidato più debole degli ultimi 30 anni, perfino più di Dukakis e Mondale. Mai sentito un discorso soporifero come il suo. E poi basta guardare la copertura dei media internazionali. A Denver (Colorado) eravamo calati da tutto il mondo a frotte, circa il triplo di quanti ci siamo ritrovati a St Paul (Minnesota). A Denver le assise si sono concluse in uno stadio con 85.000 presenti. Qui a St Paul, per la serata conclusiva e il gran festeggiamento finale, McCain non è riuscito a riempire un palazzetto dello sport da 15.000 posti. Ma ancor più che lo scenario, è l'andamento stesso delle due Convention a parlarci di un partito - quello repubblicano allo sbando, pronto ad andare all'opposizione, e dell'altro con già l'acquolina in bocca per la prospettiva di potere. A Denver, nascondendo disaccordi e mascherando divergenze fratricide, si sono succeduti tutti i grandi tenori democratici, dai Clinton ad Al Gore a Jesse Jackson. Qui hanno colpito più le assenze delle presenze. Quasi un fuggi fuggi generale. Non c'era George Bush. Non c'era Dick Cheney. Dell'amministrazione uscente si è presentato solo Tom Ridge, capo della Homeland Security. Ma nessun ministro: non ha parlato neanche Condoleeza Rice, mentre nel 2000 gran rilievo aveva avuto Colin Powell: si vede che i repubblicani danno i neri per persi in queste elezioni. Con la scusa dell'uragano Gustav, non si è scomodato neanche il governatore della California Arnold Schwarzenegger: si vede che i repubblicani danno anche la California per persa. Ma il contrasto tra le due assisi è stato ancora più grande a livello di organizzazione. È questo un aspetto assai sottovalutato della campagna di Obama: la Convention democratica è stata condotta come un'operazione militare con puntualità e meticolosità prussiana: le sedute finivano immancabilmente alle 21 zero minuti zero secondi, mentre la Convention repubblicana cominciava in ritardo, sforava, oscillava. Nella Convention democratica gli interventi rispecchiavano scrupolosamente la sequenza e gli orari del programma, in quella repubblicana ogni giorno riservava sorprese, con interventi spostati, rimandati al giorno dopo o addirittura cancellati. Il sito internet dei democratici forniva tutte le indicazioni e tutte le trascrizioni degli interventi in tempo reale, mentre il sito repubblicano era approssimativo, incompleto, inaffidabile (nell'uso della rete e dei new media i democratici sono anni luce avanti ai repubblicani). Ma è tutta la campagna di Obama a essere caratterizzata da una straordinaria disciplina ed efficienza: non ha mai cambiato squadra, a differenza di tutti gli altri candidati. Il pubblico ammira il profeta che cammina sulle acque, ma l'insider vede il laureato di Harvard che ha studiato come organizzare un grande studio legale e che ora guida con pugno di ferro il team delle 2.500 persone che conducono la sua campagna elettorale. I repubblicani lo hanno accusato di non aver mai gestito nulla, neanche una piccola impresa: ma ora sta gestendo una campagna elettorale con un bilancio di oltre 250 milioni di dollari. L'elezione sarebbe quindi in tasca per Obama se le Convention rispecchiassero l'andamento reale. Ma le Convention sono teatro e non sempre quel che va in scena è reale. Quattro ostacoli maggiori si frappongono tra Barack Obama e l'Ufficio Ovale della Casa bianca. Il primo è costituito dalla geografia. Con la scelta della Palin, McCain ha costituito un fronte occidentale, di stati del West: lei dell'Alaska, lui dell'Arizona. Mentre i democratici hanno messo su un ticket - tra la Chicago di Obama e il Delaware del suo vice Joe Biden - molto più sbilanciato a est. E ormai lo spartiacque politico americano - che tradizionalmente divideva il nord dal sud - passa invece per la linea est/ovest. Finora si diceva che nessun presidente poteva vincere se non veniva dal sud (e così è stato negli ultimi 44 anni), ma ora è il West a pesare di più, per la deriva economica e demografica. Il secondo ostacolo è costituito dall'andamento della guerra in Iraq e dalla debolezza democratica sull'argomento. I democratici si sono scoperti contrari alla guerra quando hanno visto che gli Usa la stavano perdendo. Sono cioè contrari non alla guerra, ma alla sconfitta. Ora che la nuova strategia Usa, il cosiddetto surge , sembra aver limitato i danni, i repubblicani cantano vittoria e i democratici si trovano nell'angolo perché non hanno mai imposto, come proprio tema politico, la domanda cruciale: ma in che cosa consisterebbe una vittoria in Iraq? Domanda a cui nessuno sa rispondere. Così la guerra in Iraq, che doveva essere un punto di forza della campagna di Obama, gli si sta ritorcendo contro. Il terzo ostacolo è costituito dal combinato composto di Sarah Palin e Hillary Clinton, la prima per essere un'avversaria più ostica di quel che si sospettasse (a meno che nuove scottanti rivelazioni non ne minino la candidatura), la seconda per essere un'alleata per lo meno riluttante, nonostante i proclami di lealtà: quando lo staff di Obama è corso da lei per chiederle di intervenire più spesso nella campagna, i portavoce di Hillary hanno fatto sapere che la senatrice di New York ha un'agenda molto fitta per l'autunno e che vedrà quel che può fare. In termini politici, l'ostacolo per Obama è non perdere il voto delle donne bianche, in particolare quelle con basso livello d'istruzione che sono attratte dalla Palin, dalla sua mammosità, dai cinque figli, dalla sua suburbanità. L'ultimo ostacolo per Obama è quello di sempre, che ha sotteso, anche se quasi mai citato, tutta la Convention repubblicana. Ne è stato il sub-testo. Ed è il tema della razza. Che emergerà alla prima occasione, con ipocrisia, attraverso ammiccamenti, sottintesi, antifrasi, ma emergerà: già Obama viene chiamato dai repubblicani B. O., che sono sì le sue iniziali, ma anche l'acronimo di Bad Odor (puzzone), secondo il vecchio stereotipo bianco per cui i neri puzzano. Non per nulla il partito repubblicano presenta in tutto solo 7 candidati neri al parlamento federale e solo l'1,5% dei delegati alla convention di St Paul era nero (36 su 2.300). La dinamica nero contro donna che ha caratterizzato le primarie all'interno del partito democratico rischia di riproporsi nella campagna generale tra repubblicani che si presentano come «partito delle donne» e democratici che presentano un candidato nero.

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …