Marco D'Eramo: Presidenziali USA. L'astronave repubblicana

09 Settembre 2008
Ogni volta che uno entra nel palazzetto dello sport dell'ExCel Center, ha l'impressione d'imbarcarsi in un'astronave che solca solitaria il cosmo a migliaia di anni luce dal pianeta terra. Entra in un mondo a parte, con sue regole, suoi rituali, che nulla hanno a che spartire con le nostre terrene preoccupazioni. Eppure, a prima vista, i delegati e i militanti che partecipano a questa Convention repubblicana condividono tutte le nostre ansie, dall'italoamericano cheracconta come suo bisnonno arrivò qui nel 1903, all'anziana signora dell'Idaho che parla del viaggio in Italia dei suoi figli rimasti colpiti solo dall'atmosfera di camera a gas nei vagoni fumatori delle nostre ferrovie. Qui l'età media dei delegati è molto più alta che a Denver tra i democratici; i neri sono quasi assenti (sono solo il 2,4% dei delegati, mentre costituiscono il 12,5% della popolazione Usa ed erano il 24,5% dei delegati democratici); molte più signore ostentano unghie false, lunghissime e laccate di rosso; molti più uomini indossano stivaletti a tacco alto da cowboy; si vedono molti più cappelli Stenton (e non solo tra i texani per cui costituiscono una sorta di divisa). Ma a dominare è l'immagine della bandiera a stelle e strisce che sventola nel cielo azzurro dallo schermo gigante dietro al palco e continua ininterrotta, ondeggiando nel vento per ore e ore, fino a ipnotizzarti. Anche perché è invocata a ripetizione dagli oratori che, senza distinzione, appoggiano il palmo aperto della mano destra di traverso sul cuore, con lo sguardo assorto nel nulla, a mo' dei militari che onorano appunto la bandiera. È un mondo di eroi che si sacrificano per la patria, di caduti decorati, di oratori che ricordano modesti il proprio intrepido valore. Certo, tutto questo serve a incorniciare l'apoteosi dell'eroe John McCain, il candidato alla presidenza che fu prigioniero di guerra in Vietnam per cinque anni e mezzo. Ma questo «sbandierato» patriottismo non è solo strumentale: per quanto appaia lezioso, è sincero. Quest'America repubblicana non è solo eroica, è compassionevole. Elargisce, e sventola la propria solidarietà, come si vede negli ostentati oboli per i disastrati dall'uragano Gustav. Il delegatgo del Grand Old Party (Gop) si pensa non solo come eroe, ma come padroncino di successo che generoso contribuisce a nobili cause. Come la bionda signora dell'Ohio che con voce petulante ci racconta della sua missione in Africa e di come i bambini delle scuole di laggiù smentiscano le affermazioni del filosofo Socrate. La personificazione di tanta bontà è la moglie di John, Cindy Hensley McCain, già Miss Rodeo dell'Arizona nel 1968, ora bionda liftatissima, e soprattutto erede della fortuna accumulata da 100 milioni di dollari da suo padre (ex contrabbandiere di alcol durante il proibizionismo e maggior distributore Usa della birra Budweiser). Una foto gigante ci mostra la filantropa e benefattrice Cindy insieme a Madre Teresa di Calcutta. Affiancato da una minuta ragazzetta scura che per tutta la durata dell'intervento lo guarda estatica e silente, sale sul palco un omone, amico di lunga data dei McCain. Ci racconta come nel 1991 Cindy tornò da Calcutta portando due bimbette bengalesi «moribonde»: una l'adottò Cindy, l'altra, quella sul palco, il suo amico. Il signore ci legge un tema scritto dalla piccola bengalese che è felice di essere diventata americana (e benestante). Il Terzo mondo visto dai repubblicani è una folla sterminata di homeless aiutabili solo con elemosina, carità e adozioni. Anche perché sembra che non si possa salire sul palco di questa Convention se non si hanno almeno cinque figli, tra generati e adottati. Il candidato McCaine ha avuto 2 figli dalla prima moglie, 3 da Cindy, e ne ha adottata una, Bridget (bengalese), per un totale di sei. La vicepresidentessa in pectore Sarah Palin ha cinque figli. La «prima deputata repubblicana donna del Minnesota», trentacinquenne con moine graziosette, ci parla dei suoi 5 figli e 23 bambini presi in affido. All'irrealtà contribuisce uno dei tre interventi di spicco di martedì notte, quello dell'ex senatore del Tennessee ed ex candidato alla nomination presidenziale, Fred Thomson, più noto al pubblico come il procuratore newyorkese Arthur Branch, ruolo che ha interpretato per anni nella serie tv Law & Order . Quando a mezzanotte torno nella mia stanza nel motel super8 e faccio zapping, dallo schermo tv ecco apparirmi il faccione di Thompson il cui rude accento westener non ci azzecca nulla con un legale di Manhattan: ecco che il cerchio si chiude e mi trovo calato nel Truman Show (il film di Peter Weir del 1988), senza mai riuscire a evadere dalla bolla virtuale repubblicana. Nel Truman Show di martedì il più rivelatore è stato l'intervento della first lady uscente, Laura Bush, e non solo per quella sorta di plasticosa consistenza che emana dalla sua persona e per la gestualità meccanica, con le ciglia sbattute a comando. Ma per la faccia di bronzo (o poliuretano compatto?) con cui ha enunciato le grandi conquiste sociali, politiche e umane realizzate durante gli otto anni della presidenza di suo marito: le due nomine di giudici alla Corte suprema, l'estensione della sfera di attività delle opere religiose, l'aumento di bambini africani curati per Aids, il programma No Child Left Behind («nessun bimbo lasciato indietro») che doveva riqualificare l'istruzione, la libertà resa a 15 milioni di afghani e iracheni. Infine «il presidente Bush ha tenuto al sicuro il popolo americano», aggiunge, con una frecciata allo slogan di Obama: «Questo è il cambiamento di cui abbiamo bisogno». Sembra di sognare: i due giudici citati sono tra i peggiori reazionari mai cooptati in quell'augusto consesso; il programma No Child Left Behind è un ossimoro; parlare di libertà in Iraq e Afghanistan è una barzelletta crudele; dire che l'America è più sicura è un insulto all'intelligenza dei suoi concittadini. Eppure lo dice pacifica pacifica, col suo sorriso immutabile, ed applaudita. Autismo, sconnessione dal mondo. La sindrome da cosmonauta è resa più acuta dalla totale assenza, in tutti gli interventi, del tema che oggi più preoccupa gli americani. Per gli oratori della Convention, in America non c'è crisi, non c'è recessione, i salari non sono diminuiti, il potere d'acquisto non è scemato, il mercato immobiliare non è crollato. Per loro il paese è stato reso prospero e felice da 8 anni di amministrazione Bush. L'unico guaio è il rincaro della benzina, che però è imputabile a quei cattivoni di democratici che non vogliono che sfruttiamo da veri patrioti le risorse americane scavando pozzi petroliferi nelle riserve naturali delle paludi del Golfo del Messico e in Alaska! Sempre su questa linea è il breve intervento teletrasmesso di George Bush dalla Casa bianca e l'attesissimo discorso del trasfuga Joseph Liebermann, il candidato democratico alla vicepresidenza del 2000 e ora alleato di McCain. Lieberman è stato l'unico tra le teste di serie a nominare Barack Obama, trattandolo da ragazzino inesperto, ma finora gli attacchi ai democratici sono stati inaspettatamente fiacchi. Si sperava più vita negli interventi previsti per ieri sera, dai discorsi dell'ex sindaco di New York Rudolph Giuliani, degli ex candidati Mitt Romney e Mike Huckabee, ma soprattutto della vicepresidente in pectore, la chiacchieratissima Sarah Palin. Nell'attesa, martedì notte m'incamminavo nelle vie di St Paul tra frotte di genitori adottivi, patrioti americani, benefattori, intrepidi eroi che con vocina commossa si rivolgevano ai massicci poliziotti in minacciosa tenuta antiguerriglia: «Grazie per essere qui, grazie per quel che fate. Quanto ci dispiace per quelli lì (i manifestanti di lunedì pomeriggio)». Dispiace sì, ma per i 241 arresti.

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …