Marco D'Eramo: Presidenziali USA. Sotto il segno dei due Clinton

09 Settembre 2008
Da una Clinton all'altro, da Hillary che ha parlato martedì notte a Bill che è salito sul podio ieri notte (cioè sei ore dopo il momento in cui scrivo queste righe). Il rituale è stato rispettato, ma i problemi non sono stati risolti. Hillary ha fatto bene i compiti a casa e ha svolto con cura, persino con grazia, il suo tema. Ha osservato tutte le forme, persino facendosi anche lei presentare (seppur brevemente) dalla propria figlia, Chelsea. Ha detto quello che doveva dire: non poteva certo mandare a quel paese Obama, né tanto meno promettergli un sostegno condizionato e con riserve. Doveva intonare un'orazione ispirata, empatica, straboccante lealtà, impegno e unità di partito. Doveva perorare la riforma sanitaria (per un sistema sanitario nazionale), doveva rivolgere l'artiglieria contro i repubblicani. Il contenuto del suo discorso era perciò largamente prevedibile (circostanza sfruttata dai quotidiani italiani per far finta di citare un discorso che sarebbe stato pronunciato solo tre ore dopo il tempo massimo per andare in macchina).
Nella piccionaia del Pepsi Center da cui l'ho ascoltata, avevo accanto a me sulla sinistra una militante nera, di chiara fede obamiana, che all'inizio, quando è apparsa Hillary, era tesissima: è stata una delle poche in sala a non applaudire. Sulla destra avevo invece quattro delegati dell'Arizona, membri dell'Hispanic Caucus, uno di loro, con baffi, consigliere comunale di Phoenix, la signora accanto a me, prosperosa, lineamenti latini, lunghissime bianche unghie finte, con sul display del Blackberry la foto della sua bimba di sei mesi, e tutti loro invece sono come impazziti quando è comparsa Hillary, sono saltati su a lanciare gridolini, fare tifo. Il successo della performance di Hillary è stato misurato dalla mia afroamericana vicina di sinistra che alla fine l'ha applaudita come una matta. E quando la seduta si è conclusa - come sempre - con l'invocazione a dio, lei ha pregato con intensa concentrazione ripiegata su di sé.
Applausi scroscianti dunque per le parole della Clinton, almeno al primo grado di lettura. Ma scrutando nell'infratesto, il messaggio era diverso: nel suo discorso Hillary ha continuato a rivendicare con orgoglio la propria candidatura, i 18 milioni di preferenze ricevute, gli obiettivi che continua a prefiggersi, come a dire: «Io sono qua, quel che dovevo fare l'ho fatto, ora Obama la palla è tua e devi decidere tu se mi vuoi davvero dalla tua parte e, in tal caso, cosa mi dai in cambio».
Un compito simile doveva essere svolto da suo marito che martedì notte l'ascoltava da una tribuna, attorniato dai suoi (e dalle sue) fedeli. Né c'è motivo di dubitare delle qualità oratorie di Bill, il più grande comunicatore che i democratici abbiano avuto prima di Obama (in un certo senso anche più di Obama), che alla fine ha vinto il suo braccio di ferro e ha ottenuto di poter parlare in prima serata, cioè dalle 7 di sera (ora di Denver) in poi. Non si può immaginare il livello di puntigliosa organizzazione, di sfibrante tira e molla sui minimi dettagli che vige nella Convention. Per esempio, l'organizzazione di Obama ha preteso di controllare (come avviene in tutte le Coinventions) tutti i discorsi prima che vengano pronunciati: in molti casi sono stati non solo tagliati, censurati, ma anche riscritti. A volte, è stata tagliata solo una riga, come è capitato a Dennis Kucinich, deputato dell'Ohio, e uno dei leader della sinistra del partito. La frase: «I repubblicani chiedono ancora quattro anni, ma in un mondo giusto ne prenderebbero da 10 a 20 (sottointeso: di carcere)», è stata tagliata perché considerata troppo aggressiva con gli avversari. Altri discorsi sono stati proprio cancellati, come all'ex presidente Jimmy Carter che è stato fatto salire sul podio solo per ricevere un applauso e subito riportato indietro, per paura che attaccasse troppo i repubblicani e Bush (nel 2004 era stato l'unico a farlo suscitando le ire di Kerry), e forse anche per timore d'inimicarsi la comunità ebraica viste le posizioni filo-palestinesi prese dall'ex presidente.
Se dietro le quinte le trattative sono così puntigliose, c'è da immaginare come avvengano i negoziati tra i Clinton e gli Obama su quale sarà il futuro ruolo di Hillary: nonostante tutti i discorsi e le commozioni di platea, l'ascia di guerra non è ancora stata sotterrata. E rimane in molti il dubbio che a Hillary non dispiacerebbe poi troppo se Obama dovesse perdere a novembre, perché questo le renderebbe possibile ricandidarsi nel 2012. D'altro canto, un suo scarso impegno le si ritorcerebbe contro perché verrebbe crocifissa in caso di sconfitta di Obama. Hillary si muove quindi in uno spazio di manovra assai stretto, ed è questa limitazione che Obama sfrutta per ridurne le pretese.
Tanto più che l'irritazione nel campo della Clinton è dovuta a una delusione cocente. Secondo molti, a luglio sarebbero state assai avanzate le trattative per una sua candidatura alla vicepresidenza, come compagna di ticket di Obama. Anzi, secondo fonti del clan clintoniano, sarebbero giunte quasi in dirittura d'arrivo, per esser poi demolite dalla scelta del senatore del Delaware, Joe Biden.
Lo stesso John Biden ieri notte doveva parlare dopo Clinton e John Kerry, in conclusione di seduta, e la cui scelta come compagno di cordata di Obama continua a far discutere. Perciò era così importante la sua apparizione, perché era la sua prima come candidato e tutti volevano prendergli le misure. Biden e Obama devono infatti sfatare ben di più della cabala secondo cui una coppia di senatori non vince la Casa bianca da 48 anni (dall'accoppiata John Kennedy e Lyndon Johnson). E un'accoppiata di senatori per di più del nord-est non vince le elezioni da tempo immemorabile, per lo meno dalla prima guerra mondiale (Harry Truman e il suo vice erano stati senatori, ma ambedue di stati considerati del sud, Missouri e Kentucky). E comunque un candidato del nord non vince la presidenza da Johnson. A questo ticket, dichiaratamente nordico-orientale, manca una presa nel sud e all'Ovest, quando la bilancia demografica si è già spostata nettamente a occidente. In compenso Biden è cattolico, ha buoni rapporti con i sindacati ed è originario di un stato, la Pennsylvania, decisivo a novembre. Ha dalla sua l'esperienza di 25 anni di senato e una grande competenza in politica estera. Nei dibattiti è aggressivo (dote che manca a Obama), con la battuta pronta e la lingua sfacciata. Il suo unico punto debole sfruttabile dai repubblicani sono i rapporti con la Mbna, un gigante bancario, il più grande dispensatore di carte di credito al mondo (nel 2005 la Mbna è stata assorbita dalla Bank of America), con sede centrale a Wilmington in Delaware, da cui Biden è stato sempre massicciamente finanziato, tanto da essere chiamato senatore non del Delaware ma della Mbna. Fece discutere Biden nel 1996 quando vendette per un milione 200.000 dollari la sua casa in Delaware a un dirigente della Mbna (che poi ne sarebbe divenuto presidente e amministratore). Non solo, ma nel 2003 il figlio di Biden, Hunter, è entrato nella Mbna e ne è diventato presto vicepresidente esecutivo. E Biden è considerato uno dei senatori più puliti di tutta Washington.

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …