Marco D'Eramo: Presidenziali USA. Iraq, tallone d'Obama

10 Settembre 2008
Ieri mattina il presidente George W. Bush ha annunciato un parzialissimo ritiro dall'Iraq (del 5,4% del contingente di occupazione) compensato da un invio di rinforzi in Afghanistan. Bush ha detto che non sarà sostituito un battaglione di marines - circa 1.000 uomini - che doveva comunque lasciare la provincia di Anbar a novembre. A febbraio invece partirà dall'Iraq una brigata da combattimento di 3-500-4.000 uomini, accompagnata da 3.400 uomini di supporto. Adesso sono presenti in Iraq 146.000 soldati Usa. A febbraio, dopo la partenza degli 8.000, gli effettivi saranno ancora 138.000, cioè più di quanti fossero nel gennaio 2007 prima del cosiddetto surge , cioè dei rinforzi. A novembre arriverà in Afghanistan un battaglione di marines mentre a gennaio vi sarà mandata una brigata, per un totale di circa 4.500 uomini. Ora le forze Usa in Afghanistan sono composte da 33.000 soldati (erano 21.000 due anni fa), mentre gli altri paesi Nato hanno 31.000 uomini sul posto. Bush ha anche annunciato piani per rafforzare l'esercito nazionale afgano, facendolo raddoppiare da 60.000 a 120.000 uomini, ben oltre il precedente obiettivo di 80.000 soldati. Bush ha anche riconosciuto che l'esercito Usa sta provocando vittime civili in Afghanistan: «Incresciosamente ci sono volte in cui la nostra caccia del nemico risulta in accidentali morti civili. Ho promesso al presidente Kharzai che l'America coopererà strettamente con il governo afgano per assicurare la sicurezza del popolo afgano pur nel proteggere vite innocenti». Bush ha anche lasciato un monito pesante al Pakistan: dopo aver detto che il mantenimento della sicurezza all'interno dei propri confini pertiene a uno stato sovrano, Bush ha affermato che gli Usa non possono accettare che una parte del Pakistan sia diventata «un santuario per i più pericolosi terroristi del mondo». Ma l'intento principale del presidente uscente era d'intervenire nella campagna presidenziale in cui l'Iraq doveva essere un punto di forza dei democratici. Ma i repubblicani stanno tentando di tutto per volgerlo a proprio vantaggio. Il fatto è che quasi tutti i democratici (in particolare HIllary Clinton e Joe Biden) non sono mai stati contro la guerra in sé: si sono scoperti contrari solo quando sembrava che fosse persa. Erano contro la sconfitta, non l'invasione. Ora, dopo la cacciata di Donald Rumsfeld dal Pentagono e la nomina del generale David Petraeus a capo delle operazioni, la strategia americana è stata capovolta. Gli Stati uniti si sono deciso a quello cui per i quattro anni precedenti si erano opposti: a fare politica, come qualunque impero ha sempre fatto con i territori occupati, dai romani in Gallia agli inglesi in India. L'invio di 20.000 rinforzi nel febbraio del 2007 ha infatti nascosto la vera novità, e cioè la decisione di trattare, finanziare, spesso comprare (con denaro o con importanti concessioni politiche) tutti i capi clan sunniti. Ai sunniti è stato consentito di organizzare una propria milizia armata forte di 120.000 uomini. Risultato, le morti dei soldati Usa in Iraq sono crollate verticalmente: da oltre 100 morti al mese del primo semestre 2007 ai 13 caduti di luglio e i 23 di agosto. L'estrazione di petrolio è cresciuta e alcuni quartieri di Baghdad sono meno pericolosi. A tutti i democratici che si erano opposti al surge , adesso Bush e il candidato John McCain sbattono in faccia «la vittoria» e addirittura si coglie un tono trionfalistico nella campagna repubblicana. Il candidato democratico Barack Obama ha ammesso in Tv che «il surge è stato un successo». Ma la debolezza democratica sta nella loro incapacità di stanare i repubblicani sul tema di fondo: che vittoria è quella che consiste solo nel non morire di militari Usa? E in che cosa consiste la vittoria Usa in Iraq? I problemi politici del paese sono ancora tutti sul tappeto: in particolare la coesistenza delle tre componenti (sciita, sannita, curda) in uno stato unitario e, ancor più vitale, la spartizione delle risorse petrolifere: i sunniti vivono in un'area priva di petrolio mentre curdi e sciiti galleggiano sopra immense riserve di greggio. Oltre che sull'Iraq, i democratici si trovano sulla difensiva anche sul fronte interno, e cioè sul terreno mediatico in cui sfonda la giovinezza, la brutalità e la violenza della candidata vicepresidente repubblicana, la governatrice dell'Alaska Sarah Palin. I repubblicani cercano di configurare questa campagna come un proseguimento delle primarie e presentarsi come il partito delle donne (in particolare le donne suburbane e rurali, e con basso livello d'istruzione) contro il partito dei neri e delle minoranze etniche. Gli uomini di Obama ora chiedono a Hillary d'intervenire di più da qui a novembre per contrastare la Palin. E Bill Clinton ha chiesto un incontro a Obama, presumibilmente per porre le proprie condizioni politiche dopo che alla Convention Obama aveva commesso la leggerezza di snobbarli. Come prevedibile, dopo le due Conventions i sondaggi sono tornati quelli che erano prima, con i due candidati in sostanziale parità. Ma questo non smentisce l'aria da tregenda che si respira tra i repubblicani per cui si profila una sconfitta clamorosa al Senato, alla Camera e nei seggi di governatore in palio a novembre. È previsione comune che Obama otterrà un risultato peggiore del Partito democratico nel suo insieme, a causa naturalmente del fattore «razza», l'implicito sottaciuto ma che intride tutta la campagna. La debolezza di Obama sta anche nel non aver trovato un'idea forte, una misura simbolica che esprima il suo progetto economico. A tutt'oggi ambedue i candidati sembrano non accorgersi della gravità della crisi in cui versano gli Usa e delle difficoltà che devono affrontare i cittadini. Ma se quest'ignoranza è comprensibile in McCain, è molto più deleteria per Obama. PS Dopo lo «scoop» sugli attentatori di Denver, ecco lo «scoop» della «gaffe di Obama sulla fede musulmana». Peccato che gli unici ad accorgersene siano stati, ancora una volta, i giornali italiani. Perdono il pelo, ma non il vizio.

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …