Marco D'Eramo: Presidenziali USA. La tana del lupo

04 Novembre 2008
‟Io ero una ragazza madre” mi dice Rebekah Friend, direttrice e tesoriera della confederazione Afl-Cio dell'Arizona, quando le chiedo come mai è entrata nel sindacato. ‟Cercavo lavoro e sono entrata negli elettricisti, perché era (ed è) un settore sindacalizzato e perciò si guadagnava meglio. Poi, da attivista sono entrata nel sindacato”. Questa donna imponente, occhiali e un bel sorriso comunicativo, non può sopportare le smancerie di Sarah Palin ‟che fanno fare un passo indietro alle donne”, era una sostenitrice accesa di Hillary Clinton, ‟perché l'unica in grado di far avanzare la nostra causa”. Quando le obietto che nell'Afl-Cio (American Federation of Labor - Congress of Industrial Organizazions) tutti i dirigenti nazionali sono maschi, mi risponde: ‟Certo, a me ci sono voluti 25 anni per arrivare al vertice della mia organizzazione; se fossi stata uomo, ce ne avrei messi solo 10, perché sono più sveglia”.
L'Afl-Cio appoggia, come sempre, il candidato democratico: ‟Anch'io, a ogni voto, devo dire che questa è l'elezione più importante della nostra vita. E poi sempre anch'io aggiungo: "lo diciamo tutte le volte, ma questa volta è proprio vero": ma molte volte lo dicevo senza crederci, adesso lo sento profondamente. Se vince John è una tragedia. Certo, l'Arizona andrà quasi sicuramente a lui, ma noi ci proviamo lo stesso, non è del tutto impossibile”.
A colpirti infatti qui è soprattutto ciò che non vedi. Non vedi nessun manifesto per McCain proprio nello stato di cui è senatore. È vero che negli Stati uniti i manifesti piantati nei prati davanti alle casette unifamiliari o sul bordo di strade e autostrade, gli adesivi sui lunotti posteriori delle auto e i badges che la gente porta fiera al petto riguardano di solito non i candidati presidenziali, bensì gli altri, innumerevoli candidati locali per cui i cittadini votano nell'election day: membri del consiglio delle acque e di quello scolastico, sceriffo di contea, segretario comunale, consiglieri di circoscrizione, procuratori distrettuali, deputati statali e giudici della corte suprema statale, il governatore, il vicegovernatore, il tesoriere dello stato. Persino distretti di bonifica delle zanzare hanno rappresentanti eletti. Sono i loro nomi che affollano le strade, martellano le radio e le tv. Eppure nella campagna del 2000 in Texas (stato di cui George Bush era governatore) vedevi un sacco di manifesti per Bush e qualcuno per Al Gore. Qui ho visto solo un manifesto, per Barack Obama e Joe Biden, piantato nel posto più improbabile: nel prato davanti a una villetta di Sun City, una delle città per soli anziani che attorniano Phoenix. Nel 2004 in Ohio i due ticket Bush-Cheney e Kerry-Edwards erano assai visibili. Qui no.
‟McCain non è neanche nato in Arizona” dice Rebekah. ‟Sta qui perché sua moglie è di Phoenix”. La moglie di McCain, Cindy, è erede di una fortuna di circa 100 milioni di dollari accumulata dal padre, il più grande distributore di birra Budweiser degli Stati uniti. ‟Se la sede centrale della sua distribuzione di birra fosse stata in Nevada o in Colorado, oggi McCain sarebbe senatore del Nevada o del Colorado. E poi non viene mai qui, non lo si vede mai. Per l'Arizona non ha fatto mai nulla”.
La portavoce del partito democratico dell'Arizona, Emily Derose, mi aveva detto: ‟McCain è assai impopolare tra i repubblicani del Nevada. Alle primarie repubblicane ha ottenuto solo il 47 % delle preferenze. Immagina se Obama avesse avuto solo il 47% in Illinois o Bush fosse stato minoritario in Texas! I candidati alle presidenziali di solito sono fortissimi nei propri stati. Beh, tranne Al Gore che perse il Tennessee di cui era stato senatore prima di diventare vicepresidente. Non è un bel precedente”. E anche lei conclude: ‟Non è del tutto impossile che McCain perda questo stato”. In realtà, come tutti gli stati sicuri, l'Arizona è snobbato dai due candidati. L'uno perché sicuro di vincere, l'altro di perdere, mentre invece ambedue si affannano a perlustrare in lungo e largo sempre gli stessi stati, quelli in bilico, i switching states Pennsylvania, Ohio, Virginia, North Carolina.
La vera speranza dei democratici è di aumentare la propria rappresentanza al Congresso di Washington e di prendere il controllo del parlamento dell'Arizona (che ha già una governatrice democratica, Janet Napolitano). Oggi al Parlamento nazionale l'Arizona manda 4 deputati repubblicani e 4 democratici (due sono stati eletti solo due anni fa). I democratici cercano quindi di conservare i due seggi conquistati nel 2006 e di vincerne altri due, in quattro sfide assai tirate. A livello statale, i democratici hanno bisogno di vincere 4 deputati in più per ottenere la maggioranza dei 60 seggi e 3 senatori in più su 30: forse ce la possono fare alla Camera.
Va detto che, come in altri stati del sud, i democratici di qui sono assai repubblicani: ‟Quando ti devi far votare in una circoscrizione rurale, non puoi dichiararti per la limitazione delle armi da fuoco o per una sanatoria ai clandestini”, mi dice Emily Derose. Qui ci sono ancora città in cui ‟quando entri al bar”, mi diceva Mike Davis, ‟ti chiedono educatamente di lasciare le armi alla porta”. Perché col mito del Far West impiantato in fondo al cervello (in Arizona, a Tombstone, ci fu la sfida dell'OK Corral con lo sceriffo Wyatt Earp), questo stato è uno dei più retrogradi d'America. Lo stato fa pagare pochissime tasse e fornisce scarsissimi servizi, a partire da una pessima istruzione scolastica e un pessimo sistema sanitario: l'Arizona è il penultimo stato quanto a salute dei suoi bambini, con un enorme scarto nel tasso di mortalità infantile tra i figli di madri che non hanno studiato (7,5 per 1000 nascite) e madri con la laurea (4,5 per 1000). Solo adesso, con una crescente migrazione dalla California o dal Midwest, la mentalità sta cambiando, piano, piano, piano.
Una parte della speranza dei democratici qui è basata non sull'idea che il loro stato si sia all'improvviso convertito in massa al progressismo più liberal, ma sull'ipotesi che per disamore verso McCain molti repubblicani non si rechino a votare neanche per gli altri seggi in ballo. Curioso, ma è per le nostre ragioni che McCain è impopolare tra i suoi: perché non è un fondamentalista cristiano, è molto tiepido sull'aborto e sui gay, e insieme al senatore democratico Ted Kennedy ha firmato una legge sull'immigrazione che ha fatto infuriare i repubblicani perché prevedeva una procedura per legalizzare i clandestini: negli Stati uniti vige il diritto del suolo, è cioè cittadino statunitense chiunque sia nato in terra Usa. Succede così che le retate di clandestini rispediscono in Messico due genitori di un infante cittadino americano. Un'eventualità che si verifica assai spesso, con tutti i drammi umani che ne conseguono.
In Arizona è importante il voto latino, poiché gli ispanici rappresentano il 29,2 % della popolazione, ma un terzo di loro è immigrato (senza diritto di voto) e perciò rappresentano solo il 17% degli aventi diritto al voto (673.000 elettori quest'anno). Di solito tra loro l'astensionismo è alto: nel 2004 avevano votato solo in 296.000. Chiedo a tutti perché mai i latinos dovrebbero recarsi alle urne e votare democratico, se i democratici dell'Arizona non fanno altro che proporre leggi sempre più dure contro i clandestini (vedi la puntata di ieri). La risposta generale è che i latinos qui voteranno contro i repubblicani per i loro toni razzisti nella crociata contro i clandestini, razzismo che si traduce in una discriminazione verso tutti gli ispanici in quanto tali.
Rimane però la storica diffidenza tra ispanici e neri, la ragione per cui Hillary ha vinto e Obama ha perso in tutti gli stati a forte presenza latina (tranne l'Illinois). Per Ruben Hernandez, il direttore del Latino Perspectives Magazine, quest'ostilità è irrilevante in Arizona dove ci sono pochissimi neri. Ma la migrazione interna sta portando anche qui sempre più neri: tra il 2000 e il 2005 la popolazione dell'Arizona è cresciuta del 15%, ma sia neri che ispanici sono cresciuti di un terzo. Il più curioso è che tra i soli ispanici, i neri sono aumentati del 69% (per l'Istat statunitense, la categoria ‟ispanico” comprende individui di tutte le razze). Rebekah lascia capire invece che i latinos sceglieranno Obama perché non sanno a che altro santo votarsi. Sono assai conservatori nei valori (machos, antiabortisti, antidivorzio, religiosi), ma la crisi economica li fa ragionare col portafoglio, non col cuore.
Perché il secondo fattore che gioca a favore di Obama è la crisi che manda i frantumi il mito della crescita in cui l'Arizona ha creduto da decenni (vedi puntata di domenica 12 ottobre). Ma quando obietto a Rebekah che i rimedi proposti mirano a sanare i problemi del credito, non quelli dell'economia reale, lei sbotta: ‟È il frutto di otto anni di diseducazione del popolo americano. Questa è la prima guerra che combattiamo senza che ci sia stato chiesto il minimo sacrificio. Tanto che neanche sembra una guerra. Durante la seconda guerra mondiale mia madre non poteva comprarsi le calze di nylon, si chiedevano sacrifici. Qui l'unica cosa che Bush è stato capace di dire è quell'infame "Go shopping!", di spendere senza averne i mezzi, di alimentare una cultura dei buffi. Hanno fatto gonfiare una bolla di debiti mentre licenziavano, abbassavano i salari, rendevano più precaria la vita di tutti, aumentavano il costo delle cure sanitarie, raddoppiato in 8 anni. Se devi pagare di più per la salute, per il mutuo, per la benzina, e nello stesso tempo guadagni di meno, cosa ti resta da fare se non indebitarti? Io lo vedo tutti i giorni, quando parlo con gli operai, i camionisti, gli infermieri dei miei sindacati qui. Ecco perché Obama è importante. Perché ai ragazzi, ai giovani di vent'anni nessuno offre una speranza, non c'è nessuna figura a cui possano ispirarsi. Noi avevamo Martin Luther King o Malcolm X, o César Chavez, o perfino i Kennedy. Ma loro chi hanno? Paris Hilton? I ragazzi hanno bisogno innanzitutto di qualcosa in cui sperare, poi si vedrà che cosa esattamente”.

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …