Paolo Rumiz: La polenta. Povera e nobile tosta e allegra... Made in Italy

19 Dicembre 2008
La vedo così. Al centro una polentazza padana fumante, enorme, rovesciata sul tavolo. Una polenta larga di pianura, fatta a brani in pochi minuti, in una fattoria nebbiosa stile Albero degli zoccoli. Intorno, una costellazione di polente alpine, una corona di polente montanare federate che circondano il Grande Fiume e disegnano l’anima plurale del Nord. Bossi vide giusto quando lasciò perdere le tristi risaie del professor Miglio e cercò il giallo-oro allegro della polenta. I "polentoni" rivendicavano dignità, e avevano ragione. In mille viaggi italiani, tutti i mangiatori di polenta che ho incontrato erano vere bestie in salita. Gonfi e pigri erano gli spaghettari. «Leva su, bella, che leva la Luna / il gallo canta, la polenta fuma». La trovi nelle canzoni, nei nomi delle montagne. Definisce atmosfere, evoca inverni duri. C’è una Val Polenta, tra Cividale e Caporetto, e poco in là, nelle Alpi Giulie austriache fino a novant’anni fa, la gente cantava «Eine Schuessel Polenta / und ein Schottsuppe drauf», in un dialetto tedesco imbastardito d’italiano e sloveno. Una pignatta di polenta, con un bel sugo sopra: il sogno è sempre quello. Cosa trova il fante lombardo Delfino Borroni, classe 1898, prigioniero abbandonato dagli austriaci in ritirata, quando arriva morto di fame dalle parti del Livenza? Un’indimenticabile montagna gialla fumante e una donna caritatevole che gliela offre, «con un buco al centro, piena di sugo rosso di fagioli». Nulla realizza meglio lo sposalizio dell’Italia montanara col mare. In Veneto si dice: «Se i mari fussi de tocio / e i monti de polenta / ohi mama che tociade / polenta e bacalà». Udite, romani: "tocio" è molto meglio di "scarpetta", perché il contatto col sugo non si limita al pane e indica appetiti più robusti, da alpino. E poi, il baccalà. Il geniale abbinamento col pesce più universale del mondo, capace di battere mari spagnoli e norvegesi, di ingolosire tanto i maomettani d’Arabia quanto i veneziani della Serenissima. La polenta consente armistizi con i vicini più imprevedibili. Sul confine orientale, con i duri salamini slavi detti "globasse". In Veneto, con salsicce dal nome greco di "lugàneghe". Immagini, spesso di pioggia. Una sera in Valle Spluga, dove il mondo dei Lumbard finisce e comincia la "Via Mala" col Reno che spumeggia in un orrido, quando, accanto a una stufa di pietra ollare, una bionda taverniera mi scodellò una Taragna grondante formaggi svizzeri. E poi la neve bagnata a Casteldelfino, sui monti di Cuneo, con una croccante polenta fritta consumata con fette di un Castelmagno così forte che per un mese mi impestò il maglione con inestirpabile odore di caglio. E che dire del bivacco con temporale assieme a Mauro Corona - bivacco talebano sotto gli strapiombi dell’Antro di Tamarìa - e della polenta a fette scaldata sul fuoco assieme a un cacio padellato friulano di nome "frico". Facile dire polenta. Me ne ricordo di ogni tipo. A croste, il meglio del meglio, staccate a fatica dal fondo di un paiolo in rame. Polenta secca tirolese, messa nello zaino assieme a speck, chiodi e martello, al tempo delle prime arrampicate in Dolomiti. Polenta veneta bianca come la neve, fatta ai ferri in un casone della Laguna. Polenta partigiana, come quella che in Val d’Arda, sull’Appennino di Piacenza, i valligiani passarono di nascosto per due inverni allo "Slavo", imprendibile comandante della Resistenza. Polenta emigrante, abbrustolita sotto il cielo delle Fiandre. Polenta di trincea, messa sul fuoco alle pendici del Grappa, dove scaglie di balistite della Grande guerra - ancora infiammabili - escono dalla terra in quantità da paura. Polenta povera e nobile, resistente e ostinata. Italiana.

Paolo Rumiz

Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …