Stefano Rodotà: Le nuove regole e la religione del voyeurismo

02 Aprile 2007
Servirebbero robuste riserve di moralità pubblica per non essere sopraffatti dallo squallore che ci circonda (quante altre puntate di Vallettopoli dovremo sopportare?) e per affrontare vicende ben più inquietanti, quali sono quelle rivelate dalle inchieste intorno a Telecom. Ma quelle riserve sono state progressivamente erose in questi anni di regressione culturale, e così il campo è tenuto dal pettegolezzo elevato al rango di informazione salvifica per la democrazia, da affari oscuri con risvolti ricattatori, da esasperazioni corporative di politici e giornalisti, da massicce dosi di cattiva informazione o di vera e propria ignoranza. Poiché cultura e moralità pubblica non si creano per decreto, si può almeno provare a chiarire il quadro istituzionale nel quale le diverse vicende devono essere collocate. Le regole di riferimento, allora, a proposito delle quali in questi giorni se ne sono dette e sentite di tutti i colori. Ministri della Repubblica dicono che il Garante per la privacy (piccolo chiarimento: non ricopro più quella carica da due anni) non ha alcun potere di risolvere casi specifici. Portavoce unici invocano un codice di deontologia per i giornalisti. Parlamentari invitano a fare come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, indicati come paradisi d´una libertà senza limiti. Giornalisti intimano al Garante di vedersela solo con gli editori. Ma come stanno davvero le cose? Il Garante non solo può, ma deve, entro 60 giorni, decidere sui ricorsi dei cittadini, rispettando ovviamente il principio del contraddittorio. Nei dieci anni passati lo ha fatto quasi mille volte, e i casi riguardanti i cosiddetti Vip non arrivano a dieci. Così vuole la legge, che consente a cittadini di scegliere tra il ricorso al Garante o al giudice. E nella stragrande maggioranza dei casi hanno scelto il Garante, perché i costi sono minimi, la procedura semplice, le risposte rapide. Tra i principi e le norme che il Garante deve applicare vi sono quelli indicati dal Codice di deontologia dell´attività giornalistica, che esiste dal 1998, è stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale, si può trovare con un click su Internet e non è stato imposto da un maligno censore, ma è il frutto della collaborazione tra il Consiglio nazionale dell´Ordine dei giornalisti e il Garante sulla base di un testo predisposto dagli stessi giornalisti. Lì si trovano le indicazioni che hanno fatto gridare allo scandalo tanti giornalisti, che evidentemente ritengono superfluo dare un´occhiata alle regole che essi stessi hanno contribuito a scrivere. In quel codice compaiono i riferimenti all´essenzialità della notizia ed alla sua rilevanza pubblica, al particolare rispetto per la vita sessuale e a un diritto al rispetto della dignità anche per le figure pubbliche, fermo restando che esse hanno garanzie più ridotte rispetto al comune cittadino. Indicazioni necessariamente generali, da applicare ai casi concreti attraverso l´autonoma valutazione del giornalista e, nel caso di ricorsi, dalla magistratura o dal Garante.
Oggi tutto questo non piace? E allora vi è una sola via corretta da seguire. Chiedere una modifica delle regole, fermo restando comunque il diritto alla critica motivata, anche severissima, delle decisioni prese sulla base delle regole attualmente vigenti. In nessun caso, tuttavia, può essere accolta la pretesa manifestata da alcuni giornalisti di essere gli unici giudici di ciò che decidono di diffondere. Tutela massima del diritto d´informazione, ovviamente. Ma nessuna categoria può negarsi alla valutazione di legalità del suo agire, quando si incide sui diritti dei cittadini. Lo dice la Costituzione all´articolo 24: «Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi». In uno Stato costituzionale di diritto, la giustizia non può essere confiscata da nessuna corporazione o affidata alla sola coscienza individuale, che pure è guida essenziale dei comportamenti. Già i processi di feudalizzazione sono abbastanza avanzati, si diffondono le pretese di fare obiezione di coscienza a qualsiasi legge. Non secondiamo queste derive pericolose. E dovrebbe essere evidente che mantenere garanzie per i diritti dei cittadini non ha nulla a che fare con la censura.
Gli altri paesi? Solo un accenno. In Gran Bretagna Naomi Campbell, figura pubblica che più pubblica non potrebbe essere, è arrivata fino alla Camera dei Lords, che ha una funzione simile a quella della Corte di Cassazione. E i Lords hanno deciso che violava la sua privacy la pubblicazione di alcune foto che la ritraevano all´uscita di una clinica dove era andata per disintossicarsi. La Corte europea dei diritti dell´uomo ha ritenuto che fosse violata la privacy di Carolina di Monaco dalla pubblicazione di foto, nient´affatto scandalistiche, che la ritraevano insieme ai figlio in situazioni in cui riteneva di avere una ragionevole aspettativa di privacy.
Varcando l´Atlantico, vorrei sapere se i giornalisti italiani accetterebbero la prospettiva dei terrificanti risarcimenti del danno che, in qualche caso, hanno messo a rischio la sopravvivenza di giornali. O protesterebbero dicendo che la loro libertà non può essere messa nelle mani della magistratura? Poiché, poi, si cita con compiacimento il caso Clinton-Lewinsky, forse vale la pena di leggere il libro di un giornalista del New Yok Times, Jeffrey Rosen, che ha analizzato la degradazione del costume civile determinato dalla celebrazione in pubblico di quella vicenda.
E l´ipotesi che il Garante abbia a che fare solo con gli editori? Di nuovo, sembra che non si valutino le conseguenze di certe proposte. Se, infatti, questo significa che i provvedimenti del Garante, eventuali sanzioni economiche comprese, dovrebbero riguardare gli editori, è ovvio che questi cercherebbero di mettersi al riparo da questo rischio. Come? Premendo perché i loro giornali, radio, reti televisive non diffondano notizie che potrebbero provocare reazioni del Garante. Qui davvero saremmo di fronte alla censura preventiva, e verrebbe amplificato quel potere proprietario dalla cui influenza i giornalisti, giustamente, vogliono essere liberi.
Forse, se si valuteranno questi dati di fatto, si potrebbe avere una discussione più seria anche su una più adeguata definizione dei rapporti tra sfera pubblica e sfera privata. E tuttavia non ci si può fermare qui, perché è nei commenti di carattere generale che s´annida l´insidia più pericolosa. Perché parlare di privacy, si dice? La privacy è ormai morta, la società va in altre direzioni, il vivere in pubblico accomuna figure pubbliche e gente comune, legittima la prepotenza del mercato, il voyeurismo come religione informativa. Diffidiamo di questa sgangherata versione del "tutto ciò che è reale è razionale", non cadiamo nella trappola di chi, di fronte alle messe in guardia contro le derive (tecnologiche e non) della società dell´informazione e ai loro effetti su libertà e diritti, lancia l´accusa dell´antimodernità
Morta la privacy? Via libera, allora, al saccheggio delle informazioni su ciascuno di noi, a quella società della sorveglianza, del controllo, della classificazione, della selezione sociale, che è nei propositi e negli atti di poteri pubblici e privati?
Di questo mutamento sociale stiamo parlando. E, di fronte a ciò, l´indigesta parola "privacy" riassume meglio di tante altre la libertà dei contemporanei. Siamo nel cuore dei diritti fondamentali, ed è cieco chi non vede che la tutela della persona e della sua dignità, sempre più al centro del sistema costituzionale, è un valore da custodire con cura.
«La luce del sole è il migliore disinfettante» – diceva un grande giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti, Louis Brandeis. Questo rimane vero per la lotta alla corruzione, per la diffusione del controllo sociali sui poteri. Ma Brandeis è uno dei padri della moderna privacy, nella quale vedeva anche un presidio della sfera pubblica e della stessa libertà di pensiero, al riparo da intimidazioni, ricatti, stigmatizzazioni. Non dimentichiamo che l´"uomo di vetro" è metafora nazista. Si parte dicendo che buon cittadino è chi non ha nulla da nascondere e poi, di fronte al bisogno di autonomia nel vivere e nel pensare, si trasforma in cattivo cittadino chi manifesta questo bisogno, legittimando qualsiasi ingerenza dei poteri pubblici. È la logica delle dittature, dove una trasparenza coatta ha portato all´obbligo della delazione anche contro i proprio familiari. Proprio per queste ragioni, la tutela della privacy è ormai considerata da tutti i documenti internazionali come un elemento essenziale della libertà, una condizione della stessa democrazia.
Vogliamo fermarci per un momento a riflettere anche su questi temi, ad inquadrare le discussioni di questi giorni nel contesto generale? Ho poche speranze che ciò possa accadere. Ma sentivo il bisogno di dirlo.

La vita e le regole di Stefano Rodotà

Viviamo in una società satura di diritto, di regole giuridiche dalle provenienze più diverse, imposte da poteri pubblici o da potenze private. Negli ultimi secoli infatti il campo di esercizio del diritto si è via via esteso, inglobando questioni affidate un tempo al governo della religione, dell'e…