Giorgio Bocca: Il padrone in redazione

13 Novembre 2009
Da noi si discute della libertà di stampa come di un bene assoluto, di un diritto insopprimibile che scende sugli uomini 'per grazia di Dio' come la sovranità. Ma in realtà è tutt'altra cosa: una conquista civile sofferta e a continuo rischio, un bene frutto del progresso, ma dal progresso fortemente condizionato e insidiato.
Come? Dagli interessi economici, per cominciare. Ho iniziato la mia vita di giornalista a Torino dove i quotidiani concorrenti erano 'La Stampa' e 'La Gazzetta del Popolo'. Alla 'Stampa', di proprietà della Fiat, era proibito dare notizia che un operaio di Mirafiori era morto sul lavoro, al massimo si poteva dire che era deceduto 'nel trasporto all'ospedale'.
Alla 'Gazzetta del Popolo' la proprietà era la SIP, Società Idroelettrica Piemontese, per cui si taceva sui folgorati dall'elettricità industriale ed era meglio non occuparsi troppo di quella naturale dei fulmini. Gli uffici stampa delle due aziende madri sovraintendevano al culto aziendale: alla 'Stampa' Tota Robiolo diceva commossa ai giornalisti convocati per una conferenza della direzione 'a cinque dita', dei cinque direttori generali: "Signori silenzio, qui si fa l'Italia".
Alla 'Gazzetta' l'inaugurazione di una centrale o anche solo di una condotta d'acqua era celebrata come una vittoria, e dell'amministratore delegato Attilio Pacces si parlava con la reverenza per un padreterno.
Poi ci sono i condizionamenti politici. Al 'Giorno', proprietà dell'Eni di Enrico Mattei, i condizionamenti politici erano complessi: i giornalisti dovevano sapere che Mattei era un democristiano di sinistra ex partigiano nemico dei petrolieri americani, ma il vicepresidente Cefis, pure lui ex partigiano, era di destra, disponibile a un accordo con le 'sette sorelle'. E che per tenere i piedi in questo duumvirato si era arrivati alla convivenza di due direttori:
Pietra e Della Giovanna.
Ma il condizionamento dei condizionamenti, dopo gli anni del miracolo economico, fu un altro, quello della pubblicità che finì per essere più importante dei politici e dei padroni del vapore, perché tutti dovevano riconoscere che senza i soldi della pubblicità non avrebbero campato.
Che altro? Molto altro: le chiese e i loro dogmi, le patrie che 'a torto o a ragione' vanno difese, le mode, le forze misteriose per cui 'dalle ghiande può nascere una quercia'. E allora che dire? Che non c'è scampo, che la libertà di stampa è un'utopia? C'è chi pensa che questa via di scampo esiste e che l'abbia indicata Indro Montanelli quando scrisse "ogni giornalista deve sapere che il suo vero, unico padrone è il lettore". Che a parte la retorica ha una sua verità, perché uno che fa il giornalista, che desidera diventare giornalista, è mosso dalla curiosità di sapere cosa sta accadendo attorno a lui, di scoprire ciò che è coperto dagli interessi personali o di gruppo, di muoversi a occhi aperti in questa giungla che è la vita. E questa voglia di sapere, di conoscere, non è qualcosa di regalato dal buon Dio, da sempre esistito.
Per generazioni, per millenni gli uomini comuni hanno accettato di vivere sotto la cappa delle sacralità del trono e dell'altare, ma dalla Riforma, dalle rivoluzioni borghesi, dall'Enciclopedia qualcosa è cambiata nel profondo, per tutti la libertà di stampa è un bene comune necessario, uno specchio in cui vedere come realmente siamo, a quali tentazioni siamo esposti. Questo credo di averlo capito nella mia lunga vita di giornalista: che chi lo fa è mosso da una gran voglia di capire e di raccontare come vanno realmente le cose di questo mondo. E se non glielo permettono se ne duole, e se tradisce la sua onesta voglia se ne vergogna.

Giorgio Bocca

Giorgio Bocca (Cuneo, 1920 - Milano, 2011) è stato tra i giornalisti italiani più noti e importanti. Ha ricevuto il premio Ilaria Alpi alla carriera nel 2008. Feltrinelli ha pubblicato …