Imre Kertész, premio Nobel per la Letteratura 2002, arriva al
Festivaletteratura accompagnato da Magda, la donna che ha sposato in seconde
nozze dopo essere rimasto vedovo. Bionda, abbondante, ridente, Magda Kertész
racconta di essere un’organizzatrice professionale di eventi culturali e di
aver dovuto mettere negli ultimi undici mesi questo mestiere al servizio della
causa coniugale: sostenere il marito, uomo cresciuto sotto due totalitarismi, il
nazismo e lo stalinismo, e vissuto nel culto del proprio anonimato come sola
garanzia di libertà interiore, nella necessità di darsi d’ora in poi in
pasto ai mass media, in quanto "scrittore d’improvviso rivelato a tutto
il mondo". È, questa, la ancora sbalordita formula con cui Imre Kertész
si definì a dicembre scorso ricevendo il premio dagli Accademici di Svezia: per
quarant’anni, dal ’51, l’anno in cui lasciò il lavoro di giornalista, si
era mantenuto nella sua oscurità di traduttore di Nietzsche, Wittgenstein,
Canetti, Freud, Roth, Schnitzler. Lavoro oscuro ma svolto con gioia perché,
racconta, "rendere in ungherese le frasi di Roth, che sono frecce puntate
verso l’alto, è come riscriverne la musica". Disse assai di più, lì a
Stoccolma, nella sua "Lettura": "Non è facile essere un’eccezione
e pensare a quanti sono morti senza avere visto la misericordia". I morti,
cioè, di Auschwitz e a Buchenwald, i due lager nei quali, di famiglia ebrea,
spese i mesi tra il 1944 e il 1945. Con caustica ironia, Kertész riassume così
la propria parabola: "Mentre ci trasportavano nei vagoni piombati non ci
dicevano che il contratto prevedeva, alla fine, il premio Nobel. Ma la vita è
assurda e quest’assurdo bisogna saperlo accettare: accettare che ti vogliano
ammazzare e, poi, che ci sia gente che abbia voglia di ascoltare in che modo ti
volevano ammazzare". Feltrinelli ha pubblica Fiasco, secondo
capitolo della trilogia uscita in Ungheria tra il 1975 e il 1990, che si
conclude con Kaddish per un bambino mai nato: tre romanzi lega ti da un
personaggio comune, György Köves. E l’essere qui, col panama bianco in testa
e scarpe comode da jogging ai piedi, al braccio della sua Magda, nonostante l’accoglienza
soleggiata che gli fa Mantova sembra far parte, per Imre Kertész, di un nuovo,
ostico, copione post-Nobel.