Giorgio Bocca: Gli opportunisti al capezzale della Fiat
16 Ottobre 2002
La crisi Fiat è una crisi del sistema Italia e ci sono molti
punti oscuri che andrebbero chiariti. Primo: la opacità, la mancanza di
trasparenza, gli arcana imperii di questo sistema. Dice Cesare Romiti, che della
Fiat è stato per anni la guida: "Questa crisi scoppiata in quattro mesi è
incredibile. Un colosso come la Fiat non affonda in quattro mesi". Siamo
d'accordo, su questa crisi c'è stata un'intesa generale a tacere che è delle
società ammalate, incapaci di reazione. Su questa crisi hanno taciuto tutti, la
proprietà, la direzione, il governo, l'informazione. Vengono licenziati due
manager di primissimo piano - Cantarella e Testore - e nessuno chiede il
perché, spiega il perché. Si parla solo delle liquidazioni principesche come
se l'essere premiati dopo aver fallito fosse un fatto normale. La nuova
direzione sorvola, continua a parlare genericamente di rilancio. Proprietà e
direzione sembrano partecipi di una stessa demenza finale: organizzano a Torino,
in occasione del dono di una pinacoteca degli Agnelli alla città, una cerimonia
trionfale, un Te Deum alla presenza del capo dello Stato, della corte, degli
stati generali con il vecchio sovrano ammalato sopra tutti nella cupola di vetro
del Lingotto. Come se tutto andasse nel migliore dei modi e non si fosse sopra
un cumulo di rovine. Tacciono anche i sindacati come si fossero spezzate le
comunicazioni con la fabbrica, tace il Comune, ci si interroga sul sindaco
Chiamparino, se sia un dalemiano o un cofferatiano, nessuno che gli chieda come
sta la company town, la crisi della Fiat. Ma è anche la crisi di una società
conservatrice e decadente dove non funziona più il gioco delle parti, dove il
confronto degli interessi si risolve in una omertà generale. A Milano c'è
stato un vertice per il salvataggio dell'azienda. Non in prefettura o nel
palazzo della Regione, ma nella residenza privata di Berlusconi. Si è visto il
mesto corteo della Lancia Thesis con i dirigenti Fiat scomparire oltre i
cancelli della villa San Martino. Sembrava una scena del Padrino, un raduno
semiclandestino. E non è solo una questione di stile, non è solo la
commistione del privato con il pubblico o il discutibile gusto del parvenu che
riceve i potenti decaduti, è una questione di Stato, di come lo Stato si
rapporta con i privati: se questo Stato ha ancora una politica economica buona
per tutti o solo per le clientele private che se ne sono appropriate. A villa
San Martino c'è stato un incontro di contrapposti opportunismi. Nessuno che
sapesse come risolvere la crisi, tutti che si sono provati a curarla con i soldi
degli altri: il Cavaliere con i soldi dello Stato su cui innestare il grande
scambio dei giornali, la proprietà che non vuole i suoi asset, il suo
patrimonio - Comau, Ferrari, assicurazioni Toro, Energia, Ifil - e dice
"abbiamo già dato" come se non fosse il rovescio di "abbiamo
già preso".
Il curioso è che entrambe le parti, il governo clientelare e la proprietà, sono stati da sempre i cantori del liberismo efficiente contro lo statalismo inetto, hanno costruito insieme questo potere nella celebrazione del liberismo senza controlli, dell'espansione continua. E ora si ritrovano di fronte a una antica e per essi amara verità: che senza lo Stato una società moderna non regge, che la mobilità del provvidenziale mercato si rivela impotente quando la disoccupazione minaccia decine di migliaia di persone, la economia di intere regioni. Ma come ricorrere allo Stato quando per anni si è cercato di distruggerlo? L'economista Tito Boeri ha descritto su queste pagine lo stato di confusione in cui versa questo Stato in fatto di politica economica e sociale: nessun piano di sicurezza e di supporto, categorie assistite e altre indifese lasciate al problema elementare di campare in qualche modo, incerto il rapporto con l'Europa, il Mezzogiorno e altre aree deboli abbandonate a se stesse e alle loro spirali perverse e, come non bastasse, il latrato dei cortigiani che il caso Fiat lo risolvono chiedendo il fallimento, ma sì affondatela, che tanto noi del nuovo regime ce la caviamo benone.
Cortei di auto panciute e lussuose da Mirafori a villa San Martino, i vertici, le manovre retrostanti, la General Motors che aspetta il momento di comprare la Fiat per quattro soldi con la regia dell'avvocato Fresco, la grande famiglia che vuol tenersi i gioielli. Nel quadro generale di un ceto dirigente che sembra tornato alla politica rinunciataria del '45 quando la Confindustria del genovese Costa e le gerarchie vaticane predicavano il passo corto, la rinuncia alla grande industria, la sudditanza al capitalismo americano. Un progetto ripreso dall'affarista Berlusconi di una Italia furba che preferisce il commercio e la finanza agli investimenti e alla ricerca. A questa Italia il fallimento della Fiat tutto sommato va bene, come è andata bene la progressiva distruzione della grande industria, e vanno bene le privatizzazioni dissennate di quel po' che è rimasto di quella di Stato. Tutti d'accordo su un solo progetto: partecipare fin che si può all'ultimo banchetto.
Il curioso è che entrambe le parti, il governo clientelare e la proprietà, sono stati da sempre i cantori del liberismo efficiente contro lo statalismo inetto, hanno costruito insieme questo potere nella celebrazione del liberismo senza controlli, dell'espansione continua. E ora si ritrovano di fronte a una antica e per essi amara verità: che senza lo Stato una società moderna non regge, che la mobilità del provvidenziale mercato si rivela impotente quando la disoccupazione minaccia decine di migliaia di persone, la economia di intere regioni. Ma come ricorrere allo Stato quando per anni si è cercato di distruggerlo? L'economista Tito Boeri ha descritto su queste pagine lo stato di confusione in cui versa questo Stato in fatto di politica economica e sociale: nessun piano di sicurezza e di supporto, categorie assistite e altre indifese lasciate al problema elementare di campare in qualche modo, incerto il rapporto con l'Europa, il Mezzogiorno e altre aree deboli abbandonate a se stesse e alle loro spirali perverse e, come non bastasse, il latrato dei cortigiani che il caso Fiat lo risolvono chiedendo il fallimento, ma sì affondatela, che tanto noi del nuovo regime ce la caviamo benone.
Cortei di auto panciute e lussuose da Mirafori a villa San Martino, i vertici, le manovre retrostanti, la General Motors che aspetta il momento di comprare la Fiat per quattro soldi con la regia dell'avvocato Fresco, la grande famiglia che vuol tenersi i gioielli. Nel quadro generale di un ceto dirigente che sembra tornato alla politica rinunciataria del '45 quando la Confindustria del genovese Costa e le gerarchie vaticane predicavano il passo corto, la rinuncia alla grande industria, la sudditanza al capitalismo americano. Un progetto ripreso dall'affarista Berlusconi di una Italia furba che preferisce il commercio e la finanza agli investimenti e alla ricerca. A questa Italia il fallimento della Fiat tutto sommato va bene, come è andata bene la progressiva distruzione della grande industria, e vanno bene le privatizzazioni dissennate di quel po' che è rimasto di quella di Stato. Tutti d'accordo su un solo progetto: partecipare fin che si può all'ultimo banchetto.
Giorgio Bocca
Giorgio Bocca (Cuneo, 1920 - Milano, 2011) è stato tra i giornalisti italiani più noti e importanti. Ha ricevuto il premio Ilaria Alpi alla carriera nel 2008. Feltrinelli ha pubblicato …