Fabrizio Tonello: Usa La solitudine della superpotenza

12 Settembre 2002
L'undici settembre 2001 ha dimostrato come centinaia di migliaia di soldati di stanza all'estero, due oceani e altri due milioni di persone sotto le armi in patria non fossero sufficienti a proteggere gli Stati Uniti da un attacco devastante. Se il bacino di reclutamento dei terroristi è grande abbastanza, nessuno scudo spaziale può proteggere le migliaia di potenziali obiettivi sul territorio americano da una bomba o da un aereo dirottato. Non è chiaro se l'amministrazione Bush si renda conto del pericolo rappresentato da un potenziale d'odio che si alimenta delle immagini di civili afgani o di bambini palestinesi uccisi da carri armati israeliani.
Questa indifferenza per l'opinione del 95% della popolazione mondiale ha tuttavia un prezzo. Gli Stati Uniti lo avevano scoperto già poche settimane dopo l'11 settembre: il Pakistan era un alleato il lunedì, mercoledì e venerdì, l'India il martedì e giovedì, come aveva scritto ironicamente Thomas Friedman sul "New York Times". Il commentatore americano continuava affermando che l'Arabia Saudita era disposta ad aiutare l'America la domenica, il Kuwait salvato da Saddam Hussein il sabato e Yasser Arafat tutti i giorni feriali, ma solo dopo le 22, quando i suoi fondamentalisti dormono. "Siamo soli con gli inglesi", concludeva Friedman.
Ancora di più Bush e Blair sono soli oggi: nessun governo europeo, né quello russo, né quello cinese, si è fatto convincere dalle abborracciate mezze verità della Casa Bianca sulle "armi nucleari" di Saddam Hussein. Gli Stati Uniti non possono convincere il resto del mondo a seguirli nell'invasione perché neppure al loro interno esiste unanimità: ci sono due schieramenti pro e contro, che dibattono con argomenti assai diversi da quelli a uso e consumo dell'opinione pubblica. Chi è contro la guerra a Saddam Hussein si preoccupa innanzi tutto del vuoto di potere che si creerebbe in Medio Oriente, delle difficoltà a tenere insieme uno stato artificiale come l'Iraq dopo averne rovesciato il regime e della prospettiva di dovervi stazionare truppe americane per decenni. Argomento supplementare: una guerra potrebbe far esplodere i prezzi del petrolio e precipitare gli Stati Uniti in una recessione di lunga durata. Tutti temi perfettamente noti già nel 1991, che infatti causarono la decisione di Bush padre di lasciare Saddam al potere dopo averne espulso le truppe dal Kuwait. Questa tesi è stata illustrata da Brent Scowcroft, allora consigliere per la sicurezza nazionale, in articolo in agosto sullo "Wall Street Journal".
Chi è a favore dell'attacco vede soprattutto l'interesse imperiale degli Stati Uniti a mostrare che nessun regime ostile è al sicuro, soprattutto quelli che minacciano Israele. Quella che era in passato la lobby filoisraeliana, preoccupata solo di garantire la continuità delle forniture militari e dei sussidi finanziari a Gerusalemme, è diventata, dopo l'11 settembre 2001, un variegato schieramento che si propone addirittura di ridisegnare la carta del Medio Oriente, forse rovesciando anche il regime saudita come vendetta per il suo sostegno alle scuole coraniche in giro per il mondo. Questo gruppo, piuttosto lontano dalle tradizionali posizioni filoarabe dei petrolieri texani a cui è legato il clan Bush, ha preso sul serio l'idea di una guerra al terrorismo che duri decenni, fino alla definitiva sconfitta e sparizione dell'avversario, come nel caso dell'Unione Sovietica. Il nemico non è il solo Osama, ma tutti i regimi islamici, quindi Egitto, Arabia Saudita, Giordania, Siria, Iran. Tutti i potenziali nemici di Israele, insomma.
Le dichiarazioni di solidarietà con gli Stati Uniti per l'attacco di un anno fa, rinnovate in questi giorni da tutti i governi, non significano nulla perché l'assenza di strategia dell'Impero è visibile a tutti. Il bombardamento dell'Iraq non è l'inizio di una politica militare efficace contro il terrorismo: al contrario, è il sostituto di una politica che non c'è, perché la vaga idea di rovesciare il regime di Saddam (dopo quello dei taleban) senza sapere cosa mettere al suo posto non è una politica bensì soltanto una dimostrazione di quanto la Casa Bianca sia di corte vedute. La "vittoria" in Afghanistan ha forse smantellato la rete di Osama bin Laden, ma non ha raggiunto l'obiettivo di arrestarlo. Non è riuscita ad assicurare un decente periodo di tranquillità a quel martirizzato Paese e richiederà la permanenza di soldati americani laggiù per decenni.
Il problema della guerra al terrorismo è per il 99% politico, mentre lo stile bellico americano detesta la politica e ritiene che siano necessarie soltanto due cose: una superiorità schiacciante e una buona propaganda. La prima per annientare l'avversario prima che possa fare troppi danni e la seconda per tener buona l'opinione pubblica all'interno. Quindi si bombarda, di preferenza Paesi che non possono reagire. Che poi ogni bombardamento da 20.000 metri, ogni immagine televisiva di ospedali colpiti e di civili mutilati crei mille nuovi terroristi potenziali è cosa che al Pentagono non interessa: basta che non vada in onda sulle televisioni.

Fabrizio Tonello

Fabrizio Tonello (1951) insegna Scienza dell'Opinione Pubblica presso l'università di Padova. Ha insegnato anche nel Dipartimento di Scienze della Comunicazione presso l'università di Bologna e nella Scuola Internazionale Superiore di …