Danilo Manera: La rapina di Santo Domingo

10 Marzo 2004
Lo sciopero generale del 28 e 29 gennaio scorso in Repubblica Dominicana è riuscito a rompere l’assedio del silenzio su quanto sta succedendo in quell’isola caraibica. Ma non per il bilancio di otto morti, molte decine di feriti e centinaia di arresti causati dalla brutale militarizzazione, condannata dalla Confederazione Internazionale dei Sindacati Liberi. Ha sorpreso l’adesione totale di un popolo stremato dalla crisi economica e da un ottuso malgoverno. Le strade erano vuote, con bambini impegnati nel baseball, vecchi che giocavano a domino, gruppi di dimostranti che ballavano a suon di merengues dai testi taglienti, come En Mala, diventato l’inno nazionale della penuria. E sui muri scritte di furioso umorismo: "Alcuni nascono fortunati, altri nascono qui"; "Abbiamo i migliori parlamentari che il denaro possa comprare"; "Vietato rubare: il governo non ammette concorrenza". Purtroppo, in tante zone, come i quartieri disagiati a nord della capitale, tra cui quello emblematico di Capotillo, gli scontri hanno coinvolto manifestanti, poliziotti, delinquenti e malcapitati. Si è anche denunciata la presenza di squadre paramilitari filogovernative.
Lo sciopero è stato indetto con un elenco di richieste inaudito e quasi disperato, ma lo scontento è così esteso e la frustrazione così profonda che la paralisi è stata superiore a ogni aspettativa. Non importano le motivazioni concrete, si protesta contro l’impoverimento collettivo e il furto di democrazia. Il Coordinamento Nazionale delle Organizzazioni Popolari e Sindacali chiede la riduzione del prezzo dei generi di prima necessità, del combustibile, dei trasporti e dei medicinali, l’aumento del 100% dei salari, la fine degli ammanchi di energia elettrica, la rottura degli accordi con il FMI, la moratoria del pagamento del debito estero, risorse per l’Università Autonoma di Santo Domingo e in genere per l’istruzione e la sanità, e la realizzazione di varie opere pubbliche.
La crisi è davvero drammatica. I prezzi si sono più che raddoppiati, mentre gli stipendi sono rimasti fermi e il commercio langue. L’inflazione supera il 40%, la disoccupazione il 20%, la svalutazione il 100%. Il PIL è sceso di un quarto, il debito estero è duplicato. Secondo analisti come Pedro Silverio e Julio Ortega Tous, l’economia dominicana è al collasso. Si sono persi mezzo milione di posti di lavoro nel settore privato, mentre la spesa pubblica si gonfia per gli stipendi degli "amici" nullafacenti. Negli anni ’90 il Paese era un esempio di robusta crescita e di stabilità, culminata con il governo di Leonel Fernández (1996-2000) e non fu sfiorato dai terremoti finanziari (Messico, Brasile, Russia, Asia). Ora, invece, per misurare lo sfascio basta il cambio del peso con il dollaro, passato in poco più di un anno da 18 a 50 e oltre.
Scarseggia tutto, dalla benzina al riso. Centinaia di piccole e medie imprese, fattorie e allevamenti sono falliti. Decine di ospedali e scuole sono chiusi per mancanza di fondi. Molte linee di autobus sono state cancellate. Un milione di scolari è senza colazione. Numerose centrali elettriche sono ferme e il paese è al buio: lunghi black out si susseguono dovunque, in provincia durano giornate intere. Le batterie vanno a ruba. Anche se il turismo tiene e continuano le rimesse del milione di dominicani emigrati negli Usa, gli investitori stranieri sono molto cauti e gli osservatori internazionali pessimisti. I giovani senza prospettive si lanciano in barca verso Portorico. Nel 2001 sono stati intercettati dalla guardia costiera statunitense 279 di questi immigrati clandestini. Nel 2003 erano saliti a 1469. Quest’anno si è già raggiunta la stessa cifra in poco più di un mese.
Il paese vive nel caos generalizzato. La campagna per le elezioni presidenziali del 16 maggio 2004 ha toni aspri. Le minacce e le aggressioni sono all’ordine del giorno. Il Coordinamento non ha ottenuto nulla dal Presidente Hipólito Mejía, un agronomo noto per la sua rozzezza e il suo disprezzo delle regole democratiche, indicato come responsabile dei guai del Paese, per incompetenza e avidità.
Nessun governo democratico in Repubblica Dominicana ha in effetti mai subito un rifiuto così generale, tanto più sorprendente considerando che Mejía ebbe nel 2000 il 49,87% dei voti, il doppio dei suoi rivali. La mina che ha causato la deriva è esplosa il 13 maggio 2003: una mastodontica frode bancaria (il caso Baninter) costata oltre la metà del bilancio dello Stato e fatta pagare ai contribuenti tramite la Banca Centrale, che è rimasta senza riserve e ha preso ad emettere buoni e certificati. Poi sono crollate altre due banche. Gli effetti di questo capitombolo dureranno a lungo.
Il Presidente Mejía ne ha approfittato per estendere il controllo governativo ai giornali, radio e televisioni di proprietà del Baninter. Oggi sorveglia quasi tutti i mezzi di comunicazione, con un clima di intimidazione, e ha varato anche una TV di Stato. Ha fatto scalpore l’episodio di due annunciatori radiofonici di Monte Cristi arrestati per diffamazione perché avevano scherzosamente chiesto agli ascoltatori chi avrebbero scelto tra Mejía e il Diavolo. Aveva vinto Satana, naturalmente. E la polizia ha perquisito la casa di intellettuali scomodi come il sociologo Antinoe Fiallo o il giornalista Marino Zapete Corniel. Durante la recente inaugurazione del Campionato di baseball dei Caraibi, gli spettatori hanno fischiato all’unisono Mejía, ma nessun giornale ha riportato la notizia, benché tutto si sia chiaramente sentito in diretta televisiva. Solo il "Diario Libre" ha una posizione critica, mentre in rete si trovano siti di informazione indipendente, come www.perspectivaciudadana.com e www.pciudadana.com.
Quando fu eletto, Hipólito Mejía assicurò che non avrebbe tollerato corruzione e malversazioni. Ha fatto tutto il contrario, proteggendo funzionari colpevoli di abusi e spendendo il denaro pubblico come se fosse suo (si è anche costruito una residenza campestre di lusso a Jarabacoa con annessa tenuta e acquedotto privato, in una zona dove gli abitanti non hanno l’acqua potabile). Il caso più scandaloso è forse stato quello del suo addetto alla sicurezza, Pepe Goico, che ha truffato lo Stato per cifre astronomiche e comprato a man bassa all’estero ville e aerei con carte di credito governative. Lungi dal finire in carcere, è stato promosso a tenente colonnello. Clientelismo, nepotismo e politicizzazione delle Forze Armate hanno portato al parossismo l’inefficienza e la decomposizione morale.
La principale preoccupazione di Mejía, ansioso di mostrarsi gradito agli Usa fino a inviare truppe in Irak, è rimanere al potere. Ha reinserito nella Costituzione la rieleggibilità, saggiamente cancellata per i terribili mali causati alla Repubblica in un passato costellato di dittature (Ulises Heureaux, Rafael Trujillo, Joaquín Balaguer). Il 18 gennaio ha vinto le primarie cui ha partecipato solo la sua fazione, il PPH (Progetto Presidenziale Hipólito), e il 31 gennaio è stato proclamato candidato del PRD (Partito Rivoluzionario Dominicano, membro dell’Internazionale Socialista). Ciò ha creato violente divisioni all’interno di tale partito, dove Mejía ha sostituito il presidente Hatuey de Camps con un suo fedelissimo (la spaccatura in atto è palese nel sito ufficiale www.prd.partidos.com). Sapendo che non otterrà mai la maggioranza da solo, Mejía ha poi proposto, a 4 mesi dalle elezioni, un cambio di regole attraverso una legge che permetterebbe la somma delle preferenze di più candidati per ogni partito, mentre la Costituzione prevede il voto diretto e l’eventuale ballottaggio tra i due candidati più votati.
Contro tale raggiro si è schierato il movimento che ha indetto lo sciopero e che costituisce un fenomeno interessante. Sono emersi leader di base, come Víctor Gerónimo e Fidel Santana o il sindacalista Ramón Pérez Figuereo, accanto a politici eterodossi di sinistra, come Ramón Almánzar, di NA (Nuova Alternativa) o Narciso Isa Conde di FR (Forza della Rivoluzione). Mejía non vuole dialogare e il Coordinamento annuncia assemblee e un foro sociale per decidere nuove azioni di lotta. Anche una parte significativa della Chiesa dominicana è vicina alla sofferenza del suo popolo. Mejía si è visto inaspettatamente bacchettare in pubblico, durante l’omelia, da Milton Amparo Tapia, parroco del suo paese, Gurabo. E il cardinale Jesús López Rodríguez ha mosso dure critiche al Presidente per la sua scelta di ricandidarsi dopo il palese fallimento del suo mandato, giudicando "ridicolo e vergognoso" lo spettacolo offerto dalla classe politica. Dal pulpito della Cattedrale Primata d’America, ha esortato i giovani a prendere coscienza attiva della tremenda situazione del paese.
Il movimento ha poca fiducia nell’opposizione parlamentare, sia di centrosinistra (PLD, su ci si veda il sito www.pld.org.do), sia di destra (il PRSC, Partito Riformista Sociale Cristiano, su cui si veda il sito www.juventudreformista.com). Ma i dominicani non aspettano altro che il momento di andare a votare per uscire dall’incubo, augurandosi che il candidato del PLD, Leonel Fernández, il favorito cui i sondaggi danno una larga maggioranza dei suffragi, e il suo avversario del PRSC, Eduardo Estrella, possano persino unire le forze per porre fine a quest’epoca cupa. Il timore diffuso è che le elezioni non siano regolari, che si usino soldi dell’erario per comprare voti, che avvengano brogli e disordini, o peggio. La Repubblica Dominicana è in un vicolo cieco. Speriamo che il 16 agosto 2004 si insedi un governo capace di riportare la legalità democratica e affrontare lo sfacelo economico.

Danilo Manera

Danilo Manera (Alba, 1957) insegna Letteratura spagnola all’Università di Milano. È traduttore, critico letterario e narratore. Ha curato numerose edizioni italiane di prosatori spagnoli, tra cui Rafael Sánchez Ferlosio, Álvaro …