Gianni Riotta: L'America realista si chiede che fare

21 Maggio 2004
Il doloroso esame di coscienza americano sull'Iraq è composto da tre atti, un pentimento etico davanti alle sevizie di Abu Ghraib, una scelta politica con le elezioni presidenziali tra il presidente repubblicano George W. Bush e il senatore democratico John Kerry e il dilemma strategico-militare: che fare adesso? La propaganda di un anno fa è dissolta, un nuovo piano razionale è ritardato dalle polemiche elettorali ed internazionali. Ieri è toccato al comandante del teatro mediorientale, generale John Abizaid, e al suo luogotenente in Iraq, generale Ricardo Sanchez, giustificarsi davanti ai senatori per le torture di Bagdad, "una sconfitta campale" secondo Abizaid. Con la condanna del primo soldato aguzzino è cominciata la potatura dei rami marci. Più difficile persuadere il Congresso, e un'opinione pubblica sempre più restia ad accettare verità ufficiali che le prospettive in Iraq siano positive, mentre il prezzo della benzina batte ogni record. Martedì era stato il viceministro della Difesa, Paul Wolfowitz, il falco dei falchi che non sa ricordare il numero degli americani caduti in Iraq, a riconoscere: "Il piano di pace per il dopoguerra non prevedeva una situazione così difficile". Ammessa la realtà, sia il presidente Bush che l'opposizione democratica devono scegliere come ricominciare. I senatori, feriti nell'orgoglio per i lunghi silenzi sugli abusi da parte del ministro della Difesa, Donald Rumsfeld, chiedono chiarezza e la loro Commissione Forze Armate lavora alacremente. L'ala destra del partito, però, teme che battersi il petto in pubblico per Abu Ghraib e lo scacco militare a Falluja e Najaf costi troppo in termini di voti. I conservatori irriducibili giudicano la battaglia politica uno scontro manicheo tra Bene e Male e il dialogo equanime li irrita. Il presidente della Commissione Forze Armate della Camera, Duncan Hunter, attacca i senatori: "E' ora di pensare a come vincere la guerra, non a distrarre i nostri generali in campo"; il capo dei deputati, Tom De Lay, incalza: "Ci stanno distraendo dal conflitto". Hunter e De Lay hanno torto. La migliore chance degli americani di non perdere in Iraq è ricordarsi del precetto dell'Accademia militare di West Point: "Mai fortificarsi dietro un errore", lo stratega brillante sa mutare corso davanti alle avversità. Un principio che fa scegliere la trasparenza al senatore John McCain, pilota della Marina torturato in Vietnam: "Parliamo in pubblico degli abusi, troviamo i responsabili, puniamoli e andiamo avanti". Questo sarà fatto, ma come il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha sentito ieri a Washington, più arduo è riaprire la strada diplomatica e militare o realizzare "svolte" facili solo nei talk show televisivi. La tanto sospirata seconda risoluzione dell'Onu, per ridare legittimità alla coalizione, ammaccata dalla guerriglia e dallo scandalo sevizie, tarda ad arrivare e i giorni passano per il 30 giugno, data prevista per il passaggio di potere alla giunta irachena selezionata dal messo Onu, Lakhdar Brahimi. Francia e Russia non intendono fare sconti a Washington, e la Germania, per recuperare il prestigio perduto all'ombra del presidente francese Jacques Chirac, torna a rivendicare un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza. Se gli americani si mostrassero non ostili, il cancelliere Schröder ammorbidirebbe il suo no alla coalizione. La fretta rende però il negoziato difficile per gli americani e anche se l'Onu desse un altro "sì" sottovoce, la bandiera azzurra non risolverebbe i problemi a Bagdad. The Weekly Standard, rivista di battaglia dei neoconservatori Robert Kagan e William Kristol, chiede di anticipare a sorpresa le elezioni in Iraq, senza attendere il gennaio e il dicembre 2005, così da avere un governo, qualunque sia, ma almeno suffragato dal popolo. A lungo rivali dei repubblicani moderati, i neoconservatori fanno marcia indietro davanti alla guerriglia endemica e si trovano adesso in imprevista sintonia con il pragmatico senatore Richard Lugar che propone di rinviare il passaggio di poteri a una data più realistica, ma anticipando le elezioni, in modo da non affidare troppo a lungo l'inquieto Paese alla giunta Brahimi. Come si vede le carte da giocare sono limitate, insistere per un crisma Onu e convincere gli alleati a non disertare (questa la richiesta pressante di Bush a Berlusconi ieri). John Kerry alla Casa Bianca muterà il quadro? Solo in parte, più spazio all'Onu e agli alleati anche nella trattativa e nell'immagine, molti vertici bilaterali che diano prestigio in patria agli europei, meno pressione sullo scandalo "oil for food", le mazzette pagate a Saddam, ma no al ritiro delle truppe dall'Iraq. Sandy Berger, già consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Bill Clinton, ora al lavoro per il senatore Kerry, considera "il ritiro unilaterale un vero disastro". L'Iraq cadrebbe in mano agli strateghi del caos, con la pulizia etnica, l'irruzione degli Stati confinanti, dalla Turchia all'Iran, e così "l'umanista" Berger si trova d'accordo con il "realista nixoniano" Henry Kissinger: la vittoria dei fondamentalisti in Iraq sarebbe la fine dei regimi arabi filoccidentali, la rotta di ogni disegno di pace tra Israele e i palestinesi, un successo strategico per il terrorismo. Il senatore Kerry segue perciò con ansia il dibattito in Gran Bretagna e Italia sul ritiro delle truppe, perché, nelle parole di un suo consigliere "teme di restare senza interlocutori, in caso di vittoria". Contatti con i laburisti sono attivi da tempo e qualcuno, incerto, parte verso i reparti del centrosinistra italiano che condividono l'analisi di Berger sul caos in Iraq, vedi Romano Prodi e i moderati Ds. Il resto sono sforzi di buona volontà che, se messi in atto da Bush il giorno dopo la presa di Bagdad, avrebbero avuto forte impatto, oggi risultano condivisibili ma flebili. "Dare ad altre nazioni una voce in Iraq, creare un gruppo di contatto internazionale con Usa, Iraq, Onu e Unione Europea" per il controllo della situazione, chiede il viceministro degli Esteri, Richard Armitage, sapendo per primo che non ci saranno volontari per la prima fila, né al Palazzo di Vetro né a Bruxelles. Lo studio dell'ex presidente del Council on Foreign Relations, Leslie Gelb, per una divisione a tre del Paese, curdi, sciiti e sunniti in chiave Balcani dopo Tito è stato considerato alla Casa Bianca, ma il Sud dove le due confessioni islamiche vivono frammiste e il controllo dei campi petroliferi, sembrano ostacoli insormontabili. Quando guardano le proposte, da destra a sinistra, il presidente Bush e il senatore Kerry prendono atto con realismo che non sono poi tantissime, o diverse tra di loro, punire i colpevoli ad Abu Ghraib, incalzare le Nazioni Unite, sperare in Brahimi e tenere il passo in trincea a Najaf e Falluja. Le notizie dal campo non sono buone, a Falluja gli americani hanno ceduto la mano agli ex ufficiali di Saddam Hussein e a Najaf solo la mediazione dell'ayatollah moderato Al Sistani può avere effetto sui duri di Al Sadr. Per il resto sarà guerra di posizione fino al 2005, chiunque sieda alla Casa Bianca. Poi, forse, la situazione comincerà lentamente a migliorare. Bill Safire, ex consigliere di Richard Nixon, lamentava ieri sul New York Times la fretta dei neoconservatori, auspicando il ritorno dei pazienti "vecchi conservatori". La prima scelta dell'astuto Nixon sarebbe stata la classica face facts, parti dai fatti: e i fatti in Iraq, per ora, son questi. Il mondo temeva l'eccesso di egemonia Usa e deve fare i conti invece con una carenza di leadership Usa, uno dei tanti paradossi della guerra globale.

Gianni Riotta

Gianni Riotta, nato a Palermo nel 1954, ha studiato all’Università di Palermo e alla Columbia University di New York. Ha lavorato come giornalista per varie testate da Roma e da …