Gianni Riotta: L'ultimo cowboy del Novecento. Con lui l'America tornò a sognare

07 Giugno 2004
"Ricordatevi che mi sono sempre appellato a quanto c'era di buono in voi, nel partito e nel Paese, tra gli americani, ai nostri migliori valori e mai ho fatto ricorso alle bassezze, alle nequizie a quanto lacera e divide il Paese, cresciuto nella storia sempre includendo in armonia e mai escludendo nel risentimento. Addio, vincete ancora per me...". Non c'era nessuno che non singhiozzasse nella caverna postmoderna di vetro e cemento che ospitava la Convenzione repubblicana del 1992, teatro del discorso di addio ai suoi militanti del presidente Ronald Reagan, scomparso ieri a 93 anni, nella sua adorata California. Era la convenzione che consegnava il partito di George Bush padre alla retorica estremista dei Pat Buchanan e della destra estrema che strologava di "femminaziste" e "giapponesi che ci rubano il lavoro". Bush non seppe contrastare il riflusso, e Bill Clinton lo batté alle elezioni, non prima che il "Gipper", Ronald Reagan, provasse a convincere per l'ultima volta i suoi a non abbandonare la strada maestra del buonsenso, che lui aveva scelto come manifesto politico, e che lo rende ancora oggi un eroe per il movimento conservatore e un incubo per i progressisti. Qualunque sia la cifra che si assegna ai suoi anni da governatore della California, il più ricco e popoloso Stato d'America, e agli otto anni da presidente che lo videro accusare l'Urss come "impero del male" e finire chiedendo a Mikhail Gorbaciov "Presidente distrugga questo Muro, il Muro di Berlino", la sua figura è mitologica per gli americani, nel cui nome esorcizzò con la sua bonomia, il cappello da cow boy e il sorriso sotto i capelli castani al Brylcreem, "mai usato tinture!", i fantasmi del Vietnam, "la malattia americana" evocata dal presidente Jimmy Carter, le code alle pompe di benzina, la sfibrante crisi morale, industriale e intellettuale seguita alle catastrofi in Indocina, l'embargo petrolifero, la lacerazione sociale dopo lo scandalo Watergate e le dimissioni del presidente Richard Nixon. A un Paese sull'orlo della crisi di nervi, Ronald Reagan offre il balsamo della sua tranquillità, del suo ottimismo che all'estero risulta spesso mellifluo, da finale di James Stewart in un film bianco e nero di Frank Capra, ma per gli americani nevrotici del 1980 è un tornare al sogno, alla speranza, all'identità. Come Bill Clinton, che ne ricalcò a sinistra stile, moderazione e costante dialogo col cuore nascosto degli Stati Uniti, Reagan aveva sofferto con un padre alcolizzato, e nei banchetti di Stato, anche con la Regina Elisabetta II al fianco, sempre si limitò a fingere di bere, terrorizzato dalle conseguenze dell'alcol. Per pagarsi gli studi al college di Eureka, in provincia, roba da poveri non da figli di papà come il George Bush che gli farà da vicepresidente, fa il bagnino, poi il radiocronista e infine ci prova con Hollywood, dove non andrà mai oltre parti di serie B, perfino recitando con uno scimpanzè, in Bedtime for Bonzo. La sola chiamata alla gloria è la proposta di fare da protagonista in Casablanca, accanto a Ingrid Bergman. Un contrattempo gli impedisce di firmare il contratto e Reagan viene sostituito da Humphrey Bogart. L'appuntamento con il mito non arriva con "Suonala ancora Sam", ma è solo rinviato. Quando le pellicole non chiamano più l'attore "di serie B", Reagan fa per anni il presidente del sindacato degli attori. Nelle biografie ostili che tanti gli hanno dedicato, e nell’incomprensione che gli farà dichiarare l'ostracismo dalla sinistra europea, questo dettaglio viene sempre omesso o ridicolizzato. Ma è come fare il segretario dei metalmeccanici a Mirafiori, si tratta di rappresentare i lavoratori della più ricca industria in città. Reagan impara l'arte della trattativa, della mediazione e scopre due doti che sullo schermo non avevano mai "bucato", ma che nel sindacato e in politica gli daranno successo. È capace di mettere insieme gruppi di lavoro e di assicurare immagine con il suo volto da persona perbene, ed è capace di proiettare un alone rassicurante. Vicino ai democratici durante la Depressione, se ne allontana all'alba di Guerra Fredda, e c'è chi lo accusa di non avere lesinato informazioni sui colleghi progressisti al Comitato anticomunista, durante la caccia alle streghe. Lui risolve la contraddizione con una delle classiche battute: "Non sono io ad avere lasciato il partito democratico, è il partito democratico ad avere lasciato me". E comincia una serie di conferenze, città per città, sponsorizzate dalla General Electric, che gli daranno modo di sviluppare il suo già formidabile istinto per gli umori di base degli americani. Affina la comunicazione, il suo tono da attore si fa più grave, compunto, la gravitas del discorso si interrompe in un sorriso irresistibile: "Siate ottimisti. Da bambino mi raccontavano la storia del ragazzo che trova un cumulo di letame in una stanza e mentre tutti imprecano "che schifo" batte le mani allegro "Ehi c'è un pony da qualche parte"". E quando, nel 1966, un gruppo di miliardari californiani si riunisce per cercare un candidato capace di ridare forza al partito ed essere eletto governatore, il pensiero va a Ronald Reagan. La culla della rivoluzione reaganiana è Orange County a Los Angeles, dove Disneyland convive con le case dei magnati dell'industria aeronautica, i grandi produttori, gli avvocati del cinema. La vulgata, redatta dal biografo Lou Cannon, vuole che la riunione si tenesse in una cucina e che Reagan venisse convocato e nominato. È vero che i temi della rivoluzione, tagli fiscali, riarmo, lotta - più retorica che reale - allo stato assistenziale, lotta - di nuovo più a parole che nei fatti - contro il Cremlino, appello ai valori morali antichi in America, spese forti per la difesa, vengono redatti dal suo comitato elettorale, ma è vero anche che senza Reagan, il suo buon umore eterno, la sua serenità antipiega, la rivolta anti tasse e anti partito democratico non avrebbe mai avuto il suo eroe. Reagan suscita l'ostilità dell'Altra America, la cantante folk Joan Baez gli dedica un disco ostile, il disegnatore Feiffer milioni di vignette, Hollywood lo mette al bando. Ma l'alleanza tra ceti medi, lavoratori e operai ex democratici, subito battezzati "Reagan democrats" e magnati che sovvenzionano la campagna, spezza la coalizione democratica classica, operai, ceti medi, intellettuali e minoranze etniche che il New Deal del presidente Roosevelt aveva messo insieme. La stessa coalizione Reagan porta alla Casa Bianca, senza gli afroamericani che sempre lo avverseranno, battendo prima Bush padre nelle primarie e poi, nel 1980 Carter e nel 1984, a valanga, Walter Mondale. Potessero gli americani lo eleggerebbero una terza volta, premiano il suo vice Bush e poi se ne rammaricano. Reagan è stato un "keynesiano militare", ha tagliato le tasse ma ha aumentato la spesa pubblica, specie nella difesa. Nei Paesi che ancora languono sotto il tallone del Cremlino diventa un eroe, per il suo discorso contro l'impero del male, ma in America Latina la sua passione per la democrazia, costretta dalla guerra fredda, langue e il suo sostegno alla sporca guerra in Argentina e alle operazioni paramilitari in Centro America sono le pagine più infelici della sua biografia. Finché in Islanda, a uno storico summit non si incontra a tu per tu con "Gorby" gli consiglia di andare insieme in California, gli spiega "mi fido ma controllo" e insieme tracciano un disarmo globale che poi, angosciati, i loro consiglieri stracciano. Il Muro di Berlino cade, Reagan sopravvive anche a un attentato dicendo alla onnipresente moglie Nancy "Amore, mi son scordato di tuffarmi" e al chirurgo spero sia un repubblicano, dottore" e quello, italoamericano: "No e mi sono laureato grazie ai sussidi che lei ha appena tagliato". L'Alzheimer cancellerà la memoria dell'ultimo cowboy del Novecento, dopo una lunga agonia che gli ha impedito di vedere il suo adorato Paese diviso da quel risentimento e da quella rabbia che detestava. Da pochi mesi è apparsa un'antologia delle lettere che scriveva di suo pugno e l'uomo sfottuto per aver definito la salsa ketchup un vegetale e avere accusato gli alberi di inquinare appare come un artigiano della parola, divertente, sanguigno affettuoso, eroe di un'America di provincia e bonaria, di serie B ma possente, che se ne è andata per sempre con il suo più amato presidente. L'epitaffio che ha scelto recita: "Se hanno la libertà di scegliere, gli uomini scelgono sempre la libertà".

Gianni Riotta

Gianni Riotta, nato a Palermo nel 1954, ha studiato all’Università di Palermo e alla Columbia University di New York. Ha lavorato come giornalista per varie testate da Roma e da …