Gianni Riotta: E così il "New York Times" boccia l'Italia

26 Luglio 2004
L'Italia non è più di moda sulla stampa internazionale e gli sputi di Totti in Portogallo, stavolta, non c'entrano. Se per il settimanale inglese ‟The Economist” la nostra economia è "moribonda", per un editoriale del ‟Financial Times” siamo ridotti al "ventre molle d'Europa", con il nostro mercato obsoleto, governo cigolante, sviluppo frenato e pensioni da riformare. Ieri è toccato al ‟New York Times”, con un servizio dell'inviato Jason Horowitz, ricostruire la vicenda della nave Cap Anamur con toni duri e poco simpatizzanti. Horowitz definisce la Lega Nord un "partito xenofobo" e l'Italia "un Paese mai tenero con l'immigrazione illegale". A lungo il premier Silvio Berlusconi ha battibeccato con i fogli stranieri, accusandoli di "comunismo", o sospettandoli di simpatie a sinistra, quando invece sia l'‟Economist” che il ‟Financial Times” sono piuttosto organi conservatori, fedeli paladini del capitalismo e del libero mercato. La stampa internazionale in Italia giudica il Paese come noi l'estero, con clichés, serietà, luoghi comuni, curiosità. Ci sono stati corrispondenti del ‟New York Times” che vedevano in Italia solo il Papa, la mafia, il Palio di Siena e i gelati d'agosto, e inviati che hanno raccontato le nostre vicende con passione e bravura. Malgrado tutto, però, un Paese ha all'estero un tasso di simpatia, che sale e scende con ritmi più misteriosi del tasso d'”interesse, e senza neppure una banca centrale a regolarlo. E chi legge la stampa internazionale vede scarso calore per noi. Per i francesi siamo gli aguzzini del terrorista assassino Battisti, scambiato a Parigi per Madre Teresa che scrive gialli. Per gli inglesi pasticcioni e poveretti. Ora il New York Times” ci racconta un po' xenofobi, a tinte scure, come nel leggendario film Scene di caccia in Bassa Baviera, quando i diversi vengono braccati come bestie dai tedeschi assatanati. È davvero così? Al servizio del collega Horowitz si farebbe presto - solo per restare all'asse Usa-Italia - a contrapporre le centinaia di articoli apparsi sulla nostra stampa che criticano le nuove leggi americane sui visti, l'impronta digitale presa agli stranieri, le decine di morti nel deserto al confine con il Messico, che frotte di disperati provano ad attraversare di notte per sfuggire alla temuta "Migra", la polizia Usa di frontiera. Sarebbe però un esercizio sterile. Non è giocando un derby noi-contro il resto del mondo della simpatia sugli stranieri che raddrizzeremo le nostre sorti. ‟Economist” e ‟Financial Times”, che chiedono le dimissioni di Berlusconi, sono altrettanto severi nel giudizio sull'operato di Romano Prodi a capo della Commissione Europea. È proprio il made in Italy che sembra non far più cassetta. Porto Empedocle, che fino a pochi mesi fa andava sui giornali come culla dei romanzi di Andrea Camilleri, adesso è descritta come l'arcigno confine dove l'Italia confonde profughi e immigrati clandestini, attivisti umanitari e mercanti di braccia da lavoro. Dobbiamo capire, e accettare, che come ci giudicano gli altri non è fatto minore, o indifferente, in un mondo dove tutto è globale, dai valori al mercato. Pensate con quanta rapidità l'etichetta del made in Usa è passata dall'ammirazione all'astio, e i prodotti di quell'economia hanno fatto storcere il naso ai consumatori, al punto che è nata un'associazione ad hoc per rilanciare i marchi a stelle e strisce. La Lega non è xenofoba, ma certi suoi toni e slogan sono stati colti all'estero, se non come razzisti, almeno come troppo crudeli. La legge Bossi-Fini, criticata adesso anche dalla Corte Costituzionale, può forse far guadagnare voti, come i visti cancellati agli studenti stranieri dal ministro repubblicano Ashcroft, ma non semina simpatie all'estero. Bastonare i no global, a Seattle come a Genova, può essere deciso da ministri e polizia, ma dai siti Internet poi corrode a lungo l'immagine di una nazione. La stampa estera, sono anni che mi sforzo di spiegarlo agli amici americani, è uno specchio, sia pur spesso deformante, e quando ci descrive è inutile spezzarlo, se mai più giusto provare a vedere se e come correggere i difetti che denuncia. Non è patriottico indignarsi perché un titolo racconta di quanto la nostra economia sia la tartaruga d'Europa. Al contrario, è patriottico leggere quei dati, allarmarsi che gli investitori che li studiano portano magari da noi le famiglie in vacanza, ma non certo i capitali per crescere. E provare di conseguenza a metter mano alle riforme necessarie. Davanti a un articolo, pur parziale, che analizza con severità la nostra politica sull'emigrazione, non c'è da arrabbiarsi ma da riflettere: servono davvero al nostro mercato quelle regole? E alla nostra immagine? E poi, dopo l'esame di coscienza, proseguire sereni da Paese libero e sovrano.

Gianni Riotta

Gianni Riotta, nato a Palermo nel 1954, ha studiato all’Università di Palermo e alla Columbia University di New York. Ha lavorato come giornalista per varie testate da Roma e da …