Gianni Riotta: E Kerry dal palco invocò la Forza

04 Agosto 2004
Chissà cosa avranno pensato gli attivisti che accusano George W. Bush di comandare "una giunta militare", nel vedere il suo sfidante democratico salutare impettito sull' attenti "Sono John Kerry, pronto al mio dovere!". (Foto Gerald Herbert/Ap) Per qualificare i democratici come il partito che può vincere la guerra al terrorismo proteggendo libertà e diritti civili, Kerry chiama sul palco della Convenzione l' equipaggio della sua motovedetta in Vietnam, due ex capi di stato maggiore della Difesa, l' ammiraglio Crowe e il generale Shalikashvili, il generale dell' aviazione Merrill McPeak e l' ex capo della Nato, generale Wesley Clark. In prima fila l' ex senatore Max Cleland, che in Vietnam ha perso due gambe e un braccio. "Sotto questa bandiera abbiamo combattuto, per questa bandiera son morti cari amici, questa bandiera garriva dietro il cannone, sul ponte, lacerata dalle pallottole ma sempre al vento, simbolo potente di quel che siamo e di quello in cui crediamo. La forza. La diversità. Amor patrio. Quel che fa l' America grande e buona. La bandiera non appartiene a nessun presidente o partito. È del popolo americano": il tono marziale avrà deluso qualche pacifista nella sala gremita del Fleet Center, ma il messaggio vuol recuperare un Paese che ancora giudica, 51% a 43%, Bush più determinato nella guerra al terrorismo. Che guerra sia Kerry l' ha detto senza mezzi termini, ammonendo Al Qaeda "vi annienteremo". Ha chiesto più truppe, 40.000 soldati, il raddoppio delle forze speciali, garanzie per la Guardia nazionale (i guerrieri cittadini spossati dall' Iraq) e nuove armi. Le elezioni di novembre non saranno un referendum guerra contro pace, duri contro teneri, "giunta militare Bush" contro angioli democratici. Kerry ha parlato più del servizio militare in Vietnam, con film di un allievo di Spielberg dove salta tra fiume e foresta alla Tom Hanks del Soldato Ryan, che non dei venti anni passati al Senato. Il discorso non serviva per mettere le note a piè di pagina della piattaforma. Doveva far battere il cuore agli incerti, che vorrebbero una nuova politica, ma riluttano a cambiare il comandante in capo nel mezzo della battaglia. La guerra continua, questo l' appello di Kerry, cambia però la strategia, "useremo la nostra economia e i nostri principi", non solo l' esercito. Cosa vuol dire? Che Al Qaeda, e i suoi eventuali alleati, verranno affrontati sul campo, ma intorno verranno concessi aiuti e sostegno ai Paesi che si impegnano contro il terrorismo, e i principi americani di libertà verranno impugnati (il "potere soffice" dello studioso Joe Nye) per ridare legittimità all' intervento Usa. Alleati, Onu e Nato saranno chiamati a dare una mano, in coalizione. È un piano credibile? Se eletto, finita la luna di miele, Kerry prenderà atto che il mondo non è ansioso di mobilitarsi per Bagdad (nessuno ha ancora offerto i 5000 caschi blu per proteggere la missione Onu, come richiesto dall' ultima risoluzione del Palazzo di Vetro). In campagna elettorale, però, dire "dobbiamo riconquistare la credibilità per riportare al nostro fianco gli alleati e dividere gli impegni", suona sollievo per la parte di opinione pubblica avvilita dall' unilateralismo della Casa Bianca. Dopo il caos sulle armi di Saddam e le torture ad Abu Ghraib, Kerry parla di "fiducia e serietà". Nel gran finale, i palloncini colorati son piovuti con il contagocce sui delegati in delirio di passione politica, e l' ultima volta che accadde, nel 1980, fu segnale di malaugurio che predisse la sconfitta del democratico Jimmy Carter. Kerry ha letto il suo discorso a ritmo pazzesco, come un dee jay da discoteca. I repubblicani dicono "troppi cuochi nella cucina dell' opposizione, discorso lungo e farcito", i rivali replicano "Kerry aveva la reputazione di noioso, in versione rap ha sorpreso". Non saranno né la siccità di palloncini, né l' oratoria swing a vincere, o perdere, le elezioni. Il Paese resta diviso, l' ultimo sondaggio Zogby vede Kerry in leggero vantaggio, 48% a 43% con 8% di incerti, e da Boston viene dunque l' appello a quel che unisce. La patria, la guerra al terrorismo, la famiglia, il senso di giustizia sociale, il dovere, un' economia mirata dal consulente populista Shrum alla gente non ai contribuenti che guadagnano oltre 200.000 dollari l' anno (166.000 euro), i soli a vedersi cancellati i tagli alle tasse di Bush. Certo, Kerry non ha fatto chiarezza sulla strategia per l' Iraq, e il quotidiano progressista New York Times l' ha bacchettato. È rimasto nel vago anche sulla riforma energetica, "andate al mio sito johnkerry.com", pur impartendo un attacco raro alla "famiglia reale saudita", su come reperire i 650 miliardi di dollari per la sanità (dove taglierà in bilancio?). Quanto al protezionismo e le sanzioni contro le aziende che esportano lavoro, dopo il voto l' economia globale smorzerà i toni. Il discorso di nomination è messaggio, emozione, slogan. Kerry, salutando come il tenentino che era in Vietnam, ricordando il coraggio in guerra, ha detto, combatteremo come l' America "forte e buona", l' America della sua infanzia a Berlino divisa dalla Guerra fredda, quando americani, inglesi e francesi difendevano la libertà e i sovietici la dittatura. Vincere militando dalla parte del giusto, questa la morale che Richard Kerry, diplomatico, ha insegnato al figlio John. Giovedì notte, nella saga degli affetti familiari, moglie, figlie, storie di criceti salvati dal papà solerte, quella saggezza è tornata valore centrale. John Kerry non ha offerto un rivoluzionario piano economico, né un' astuta manovra diplomatica per l' Iraq. Ha chiesto di "rivendicare la democrazia, il rispetto, per non restare soli nel mondo". È l' antico monito democratico, da Roosevelt a Kennedy, le virtù custodite dalla forza rendono l' America amica, non nemica, al mondo. Come a Berlino occupata o a Pechino, durante la rivolta degli studenti a Piazza Tienanmen, non con le bandiere a stelle e strisce oggi bruciate in troppe strade. Nelle moderne elezioni americane, il candidato più ottimista ha sempre battuto il rivale pessimista. Su questo principio John Kerry modula la sua missione, e vedremo se il Paese la condividerà.

Gianni Riotta

Gianni Riotta, nato a Palermo nel 1954, ha studiato all’Università di Palermo e alla Columbia University di New York. Ha lavorato come giornalista per varie testate da Roma e da …