Gianni Riotta: Ma la ricostruzione, lenta e dolorosa può avvenire solo intorno ai marines

27 Settembre 2004
"Un popolo che soffre da sempre, adesso soffre meno: questa è la verità!" grida un giornalista discutendo di Iraq. "Ci avete crocifisso alla storia, i morti americani hanno un numero, i nostri neppure quello" lamenta l'esiliato iracheno. Il dibattito sul dopoguerra a Bagdad va in teatro con il commovente Stuff happens, (la roba capita), di David Hare. Tre ore di dramma verità, protagonisti Bush e la moglie, Blair, Cheney, Powell, Rumsfeld, dal telegiornale al palcoscenico. E per chi segue la situazione politica mondiale, le dichiarazioni, i rapporti, i dispacci dal fronte, sembrano ricalcati dai tormentati dialoghi di Hare, chi ha vinto? Chi ha perso? Quali i torti e le ragioni? I militari americani hanno chiarito al Pentagono e alla Casa Bianca di non essere in grado, senza una strategia politica, di vincere la guerra contro i ribelli. Il presidente George W. Bush ha una strategia? E quale? Il generale John Abizaid ha chiesto più uomini per assicurare le elezioni politiche di gennaio senza troppi problemi, riconoscendo infine che i 135.000 militari Usa dislocati in Iraq non bastano e che mobilitare 145.000 soldati iracheni non è un piano, ma un'illusione. Ieri è toccato al ministro della Difesa Donald Rumsfeld dire che le elezioni potrebbero tenersi solo in certe zone, le aree sunnite e perfino Bagdad sono in tumulto, e che il ritiro delle forze armate alleate potrebbe arrivare prima della completa pacificazione del Paese, che "non è mai stato dopotutto veramente pacifico". Stuff happens vuol dire letteralmente "la roba capita", un eufemismo usato da Rumsfeld per edulcorare in tv il detto popolare shit happens, la merda capita. Il ministro della Difesa disse stuff happens minimizzando in diretta i saccheggi che bruciarono Bagdad dopo la liberazione, non comprendendo che non si trattava di vandali inebriati ma del sistematico avvio della strategia del caos, fare terra bruciata dietro l'esercito nemico, organizzato da Saddam Hussein già con la liberazione dei criminali comuni di Abu Ghraib. E' Rumsfeld il principale responsabile delle rotture di stile Usa con gli alleati e si deve a lui la frattura con lo Stato Maggiore sul numero di truppe per l'Iraq e la conseguente carenza di uomini per prevenire le violenze. Chiunque vinca le elezioni il 2 novembre, c'è ancora tempo per vincere la pace a Bagdad? E per Paesi come l'Italia che hanno mandato militari e civili in prima linea in un'operazione di pace, quale esito è prevedibile? E' privilegio di un artista come David Hare lasciare lo spettatore nel Limbo etico, tra la fine della dittatura di Saddam Hussein, i morti e le violenze. I politici devono prendere decisioni senza ambiguità. E se le elezioni in calendario per il 2005 in Iraq sono in forse, la prospettiva del ritiro precoce degli alleati è propaganda crassa. Lo stesso Rumsfeld ha commissionato agli esperti del Center for Strategic and International Studies un rapporto sulla situazione in Iraq. Il dossier (leggibile su www.csis.org) è fosco: "Gli Stati Uniti guardano alle elezioni presidenziali di novembre e aumenta dunque la pressione per trovare aree di successo in Iraq, magari per dare elementi di una strategia di ritiro americano. E' una via pericolosa: per molto tempo a venire l'Iraq non sarà una storia di successi". Non è l'invettiva del regista Michael Moore, il complotto globale del linguista Noam Chomsky o un volantino no global. E' l'esame razionale di esperti stimati dagli uomini della Difesa: "In ogni settore la situazione sta peggiorando". Alla campagna elettorale positiva che Bush conduce su Bagdad, "la libertà avanza", replica lo studioso Anthony Cordesman, un conservatore spesso consultato in Italia dai leader del centrodestra: "Sarebbe surreale aspettarsi un'analisi seria nei comizi. Ma prima o poi va fatta". Fino a novembre non si può, dopo ci saranno poche settimane prima del voto di Bagdad. Ed ecco i dolori che l'inquilino della Casa Bianca, oggi Bush è avanti al suo sfidante democratico John Kerry di 7 punti (fonte Ap), troverà a tormentarlo. 27.000 soldati iracheni in divisa, ma solo la metà addestrati e in maggioranza risoluti a non sparare contro i compatrioti. "I cittadini sono allo stremo per le rapine, gli scippi, i rapimenti, i furti d'auto che rendono la vita impossibile - dice Jon Alterman, direttore del programma sul Medio Oriente al Csis - non si tratta di guerriglia, è che non siamo riusciti a stabilire un minimo di sicurezza". "Bagdad è una città chiusa alla vita normale, 8 milioni di iracheni su 25 vivono nella capitale e sono disperati" annota Frederick Barton, condirettore del Csis. Fino al 2 novembre, purtroppo, nulla muterà. Bush non può cambiare passo senza mettere armi polemiche nelle mani di Kerry e non si smuoverà dalla posizione ufficiale: c'è la guerra al terrorismo, l'Iraq ne è il fronte principale, stiamo vincendo. Kerry è pronto a mandare 40.000 nuovi uomini per provare a stabilizzare la crisi, e spera poi in un dubbio summit con gli alleati per avere aiuti. Ieri Parigi ha ribadito il suo no, ormai radicato, a ogni intervento. Il 3 novembre, quando si dovrà riprendere l'iniziativa, gli Usa saranno soli, con i loro alleati, da Roma a Londra. Sarà allora decisivo, per i repubblicani come per i democratici, azzerare gli errori di hybris e arroganza che tanto sono costati all'Occidente e agli iracheni. La guerra al terrorismo c'è, ma i fondamentalisti di Al Qaeda vanno distinti dai ribelli sunniti, sciiti e del Baath che si nutrono di nazionalismo e temono di finire subalterni agli sciiti dopo decenni di supremazia. E' Larry Diamond, già membro dell'Autorità provvisoria, il governo alleato di Bagdad con Paul Bremer, a restituire buon senso in un saggio sulla rivista ‟Foreign Affairs”, What went wrong in Iraq, cos'è andato male in Iraq, che farà da sussidiario per la prossima amministrazione. Diamond insiste che senza sicurezza non c'è Stato, e senza Stato non ci sono elezioni né democrazia. Ecco perché il ritiro evocato a sorpresa da Rumsfeld è irrealistico: "Il passaggio di poteri sarà lungo e dapprima molto sanguinoso. Non è chiaro se le elezioni di gennaio 2005 saranno condotte in modo credibile e anche se andassero bene il resto della transizione sembra frettolosa". Purtroppo però, e gli esperti del Csis e Diamond concordano, "non c'è alternativa alla transizione che non scateni scenari tragici: la guerra civile, repressioni brutali di massa, la creazione di una base permanente e sicura per le organizzazioni terroristiche". La campagna presidenziale Usa, polarizzata fra il "tutto è rosa" di Bush e il "tutto è nero" di Kerry, fa rivalutare i dubbi e la ricerca di verità del teatro di David Hare. Per chi riflette senza astio sul da farsi, con le ragazze Simone in mano ai torturatori, decine di innocenti a rischio come loro, un Paese in bilico e i terroristi pronti a farne la trincea decisiva, la paradossale conclusione è che nella guerra in Iraq la ricostruzione politica, lenta e paziente, intorno alle truppe della coalizione, è oggi il male meno doloroso. Ma è l'ora di vincere il consenso della gente, di dare una vita normale, a primavera sarà troppo tardi e il consenso andrà agli eredi di Saddam e alla legione straniera del terrore.

Gianni Riotta

Gianni Riotta, nato a Palermo nel 1954, ha studiato all’Università di Palermo e alla Columbia University di New York. Ha lavorato come giornalista per varie testate da Roma e da …