Massimo Mucchetti: Fiat, le scelte per il rilancio degli Agnelli e delle banche

18 Ottobre 2004
Che il futuro della Fiat sia incerto è risaputo, ma quanto lo sia non è poi così chiaro. Per farsene un'idea può essere utile partire dalla distruzione di ricchezza che è avvenuta dalla seconda metà del 1998 quando, al termine della presidenza di Cesare Romiti, gli Agnelli hanno deciso di riprendere in mano le redini e non hanno rinnovato il patto di sindacato che li legava a Mediobanca, Generali e Deutsche Bank. Ebbene, in questo periodo contrassegnato dall'eredità romitiana e dalle scelte dei successori, ma ancor più dalle incertezze di una famiglia colpita dalle malattie e lutti, la Fiat ha bruciato ricchezza per 21,4 miliardi di euro, quasi 40 mila miliardi di lire. È il risultato al quale si arriva confrontando il costo cumulato dell'investimento in Fiat con il valore di mercato odierno della società. (Per chi è interessato: il costo cumulato per l'azionariato si calcola aggiungendo alla capitalizzazione di Borsa della Fiat al 30 giugno 1998 gli aumenti di capitale meno i dividendi e aggiungendo ancora, anno dopo anno, il rendimento dell'investimento degli stessi fondi in un impiego alternativo privo di rischio come i titoli di Stato). Certo, fabbricare automobili non entusiasma più i mercati finanziari: l'indice Dow Jones Eurostoxx Auto ha perso il 43% negli ultimi sei anni. E tuttavia il titolo Fiat ha lasciato per strada quasi il doppio: chi comandava a Torino ha le sue responsabilità. Nonostante partecipi alla Fiat attraverso una cascata di società quotate che riducono l'impatto delle perdite e dei profitti, anche la famiglia ha pagato un prezzo: in questi sei anni di potere pieno sulla Fiat, la cassaforte Ifi ha distrutto ricchezza propria per 1,6 miliardi di euro, metà dei quali di competenza degli Agnelli. Salvare la Fiat darebbe un senso al sacrificio. E in effetti l'aumento di capitale, sottoscritto dalla famiglia per la sua quota, è stata un'assunzione di responsabilità verso l'Italia, oltre che un atto necessario a evitare il peggio. Ma sarà sufficiente? Al 30 giugno 2004, il gruppo Fiat dichiara debiti per 22 miliardi e brucia cassa per oltre un miliardo su base annua. Il problema, dunque, è capire se e quanto sia sostenibile la situazione finanziaria, fermo restando che l'ultima parola la diranno i concessionari. A Torino osservano che metà del debito serve a finanziare gli acquisti di camion Iveco e trattori Cnh da parte dei clienti, un'attività che, se la raccolta dei fondi si rivelasse troppo onerosa, potrebbe essere ceduta alle banche come si è fatto con Fidis (auto). La Fiat, inoltre, ha oggi 5,5 miliardi di liquidità. Considerando convertito in azioni il prestito di 3 miliardi concesso dalle banche nel 2002, questa riserva dovrebbe bastare per coprire le perdite di gestione previste e onorare le obbligazioni in scadenza entro il 2006 quando, secondo il piano, il gruppo tornerà a generare un po' di cassa. Ma poiché Fiat spiega che intende conservare 3-4 miliardi liquidi per garantire comunque il rimborso degli altri bond, è ipotizzabile che, risultati industriali permettendo, la stessa Fiat chieda altri prestiti alle banche oppure riprovi a emettere obbligazioni o azioni già nel 2006. A quel punto, l'Ifil dovrà decidere quale uso fare della liquidità (almeno 800 milioni) che si ritroverà dopo aver venduto la Rinascente. Non sarà una scelta facile, perché, travolta dalla partecipazione Fiat, negli ultimi sei anni Ifil ha bruciato ricchezza per 2 miliardi ed è riuscita a invertire la rotta solo dal 2003: da quando ha deciso di funzionare come un fondo di private equity. Ma a quel punto su Fiat avranno voce in capitolo anche le banche, ormai azioniste. Toccherà a ciascuna di loro e agli Agnelli dire se e come tener duro o se, invece, esercitare la peraltro discussa opzione di vendita di Fiat Auto a General Motors.
Con la consulenza tecnica di Miraquota

Massimo Mucchetti

Massimo Mucchetti (Brescia, 1953) è oggi senatore della Repubblica. Ha lavorato al “Corriere della Sera” dal 2004 al 2013. In precedenza, era stato a “l’Espresso” per diciassette anni. E prima …