Massimo Mucchetti: Rai, verso la Borsa con il peso delle leggi

20 Dicembre 2004
La Rai sta premendo affinché Rothschild e Ubm forniscano entro Natale una stima della società al ministero dell’Economia che poi la sottoporrà al Comitato interministeriale per la programmazione economica (Cipe) per avviare il collocamento di una minoranza azionaria presso il pubblico. Difficilmente, le banche faranno così in fretta. Del resto, il loro cliente non è la Rai, ma il ministero, e cioè l’azionista. I due advisor, in particolare, devono capire quanto il quadro regolatorio definito dalla legge Gasparri (ma modificabile da un altro governo) incida sulla capacità di reddito e sul patrimonio dell’emittente di Stato in assoluto e in relazione all’altro operatore, che è Mediaset, società controllata dal premier. Nell’attesa di questo responso (che sarà comunque firmato da consulenti di parte), proviamo a capire di quali numeri si tratta. In un mercato normale, le aziende stabiliscono a quale rete televisiva destinare la spesa pubblicitaria in ragione degli ascolti attesi. Se la pubblicità televisiva confluisce su due reti di uguale audience, è ragionevole supporre che il fatturato si divida in ugual misura. Ma in Italia è valida solo la prima parte dell’equazione. Rai e Mediaset controllano tre reti televisive a testa e ottengono l’attenzione del 90% dei telespettatori ripartita più o meno a metà. Nel 2003 il fatturato pubblicitario relativo al 90% dell’audience è pari a 3,3 miliardi di euro, ma alla Rai vanno solo 1,1 miliardi e a Mediaset il doppio. In un mercato normale, la Rai avrebbe dovuto avere 570 milioni in più e Mediaset altrettanti in meno. Nei due esercizi precedenti, il fatturato pubblicitario "ceduto" da Rai a Mediaset ammontava più o meno a 480 milioni l’anno. Somme che, restando pressoché invariati i costi, incidono direttamente sul margine. Nell’ultimo triennio, Mediaset ha realizzato un risultato corrente complessivo prima delle imposte, delle partite straordinarie e delle quote dei terzi pari a 1,9 miliardi: senza il "contributo Rai" l’utile corrente del Biscione è pari a circa 350 milioni. Questo fenomeno deriva dal fatto che la Rai può mandare in onda un numero di spot assai minore di quello Mediaset, perché percepisce già il canone. E grazie al canone arriva a quei 2,4 miliardi di ricavi che bastano a pareggiare i costi e a dare anche un modesto profitto. Naturalmente, ove questi vincoli fossero rimossi, Rai e Mediaset avrebbero modo di reagire. Quella che abbiamo fatto, pertanto, è una simulazione teorica a bocce ferme. E tuttavia serve a dare l’idea del paradosso italiano, creato non solo dai diversi limiti di affollamento pubblicitario, ma anche da un’offerta televisiva anomala. In Europa, infatti, esistono numerosi servizi pubblici radiotelevisivi finanziati dai cittadini e, in Spagna e in Francia, anche da una certa raccolta pubblicitaria. Ma nessuno Stato consente a un privato di avere più di una rete nazionale e mai due soli operatori posseggono tutte le reti principali. Il duopolio rende troppo onerosa la fioritura di un terzo incomodo, come dimostra la costante marginalità de La 7. Al tempo stesso, frena la pubblicità: secondo l’Antitrust, l’Italia investe 7,6 miliardi sui media classic, 10,5 la Francia, 11,9 la Gran Bretagna e 12,8 la Germania. I colossi Rai e Mediaset rendono piccolo il mercato. A Rothschild e Ubm non spetta di indicare modifiche delle regole che determinano questo paradosso collusivo. Le riforme sono compito dei governi. La recente approvazione della legge Gasparri, tuttavia, ci avverte che alla maggioranza va bene lo statu quo. Sta all’opposizione, possibile maggioranza nel 2006, battere un colpo del quale, se fosse serio, Rothschild e Ubm non potrebbero non tener conto.
Con la consulenza tecnica di Miraquota

Massimo Mucchetti

Massimo Mucchetti (Brescia, 1953) è oggi senatore della Repubblica. Ha lavorato al “Corriere della Sera” dal 2004 al 2013. In precedenza, era stato a “l’Espresso” per diciassette anni. E prima …