La copertina di «Pulp» per Giuseppe Montesano

19 Maggio 2003
Ci sono momenti in cui le diverse congiunture storiche, le complicate strade dell’espressione, i disastri del vivere civile, le resistenze letterarie, sedimentano detriti e preziosità che solo pochissimi narratori riescono a raccogliere. Uno di questi rari raccoglitori è sicuramente Giuseppe Montesano. Nei suoi tre libri A Capofitto, Il Corpo di Napoli e l’appena uscito Di questa vita menzognera ha narrato la discesa umana nell’infero orizzontale della realtà contemporanea ed al contempo la condizione irregolare e clandestina dell’individuo che, poggiandosi sulla conoscenza, tenta una contraddittoria e vacua sopravvivenza al circostante. La lingua di Montesano è pulsante, luminosa ma anche fosca, viscida, una prosa dal forte sapore tannico. La pagina possiede un ritmo veloce, un magma di descrizioni e situazioni dove vi sono continuamente sbalzi repentini frammisti a pause di riflessione filosofica. Fuoriesce quindi durante la lettura, un gusto diverso, sempre inaspettato. Nei suoi romanzi, Montesano scandaglia il reale nei suoi aspetti radicali, che poi tragicamente coincidono con i ritmi quotidiani, con le miserie dell’esistenza più comune. La bizzarria delle vicende possiede come controcanto l’assoluta aderenza alle potenzialità del reale. Montesano, classe ’59, vive a Sant’Arpino, una cittadella della provincia di Caserta, un luogo d’un meridione spietato da dove il narratore ha tratto il suo laboratorio d’indagine e creazione, un punto sotterraneo in cui gestire una prospettiva letteraria che possa raggiungere una siderale (quasi scientifica) distanza dal circostante ed al contempo una totale compromissione. Una sorta d’ascetismo trasversale esercitato in una fogna. In A capofitto suo romanzo d’esordio uscito nel 1996 presso la piccola editrice Sottotraccia, poi rivisto e ripubblicato per l’edizione Oscar Mondadori 2001, si ricerca infatti, come l’autore stesso dichiara "un’impossibile convivenza tra Quevedo e Gombrowicz, Celine e Campanile, [..], i mistici e i cartoni animati". Gombro, picaro del tempo contemporaneo, poeta dalle ambizioni universali, è alla ricerca della poesia totale composta da tutti i poeti del mondo, dagli esseri d’ogni lingua compromessi con la peste della passione cerebrale. Gombro, si dibatte tra Gordia e Burma, città immonde, alla ricerca di mestieri, danari, motivi di vita. Tra orge con muscolose donne africane, e pizzerie sotterranee, Gombro sopravvive alla sua vita misera che tenta di sollevarsi ed invece riceve un’irrefrenabile polarizzazione verso il basso: "Dentro ben dentro, a capofitto". In questa discesa nel sottosuolo senza memoria, Montesano trova il materiale di detrito, il budello in cui è rintracciabile la pulsazione originaria di ciò che accade in superficie. Nel romanzo Nel Corpo di Napoli (Mondadori 1999/ Oscar Mondadori 2000) che ha conquistato un diffuso successo anche grazie al gioco dei premi letterari (il romanzo finì dritto dritto in finale allo Strega 1999), vi è narrata una disperata discesa nel corpo dei significati, alla ricerca della sotterranea fiamma perpetua, l’energia prima che vive nutrendosi della forza vitale degli individui di superficie. Landrò e Tommaso, giovani nullafacenti affamati di filosofia e di letteratura, vivono pigri nel caos di una città dove il disordine bestiale ed il malaffare sono assurti ad elementi d’equilibrio e norma. I due, mantenuti dalle loro famiglie, vivono nella volontà di liberare le loro menti ed i loro corpi dalle schifezze mediocri e banali del quotidiano. Fulcaniello, Ciro Morvo, individui votati alla ricerca di principi scientifici assurdi, ma caratterizzati da tinte di squallore ed idiozia, O’Tolomeo, camorrista con brame letterarie e progetti edilizi, sono solo alcuni soggetti di una pletora di personaggi che procedono danzanti, in bilico tra l’essere archetipo di manie e genialità dell’umano, o semplicemente rappresentanti di una civiltà in rovina. Il tessuto narrativo si compone attraverso il dialetto napoletano, lo slang campano, il continuo dialogo dialettale. Montesano crea una vera e propria lingua metafisica che tende a voler concedere ai personaggi un’espressione propria, particolare, singola, che non avrebbe potuto essere data con l’utilizzo esclusivo della prosa italiana. Il napoletano di Montesano ha molto più a che fare con la lingua barocca ed umorale di Giambattista Basile che con quella realista di Eduardo De Filippo. Il dialetto diviene invenzione e non soltanto descrizione di una realtà misera; non v’è solo l’utilizzo di figure già esistenti nel tessuto della realtà, ma anche un superamento di esse, attraverso una loro fantasiosa, ma possibile, combinazione. La lingua napoletana è semplicemente usata come un suono del corpo, un palpito che può essere dello stomaco così come del petto, un modo d‘espressione che non vuole essere d’esclusiva comunicazione. E’ una prosa adiacente alla musica, che può in qualche modo descrivere e captare sensazioni ed atmosfere ancora prima che imporre contenuti. Il moto della narrazione, che definirei abissale, convoglia verso il basso, verso il nascosto, verso il corpo oscuro e minerario della terra, il suo piano di descrizione, di analisi. Ciò che emergeva lento dal sottosuolo, al margine, per poi aggrovigliare come piovra il centro, ora nell’ultimo romanzo invece tracima chiaramente e rutilante, senza mediazione alcuna. Di questa vita menzognera descrive il rovesciamento sistematico della verità, l’inversione simmetrica di tutto ciò che può esser vero nel suo opposto menzognero. Centro, periferia, e confine del romanzo sono le vicende della famiglia dei Negromonte, imprenditori napoletani potenti e spietati che attraverso la connivenza con il potere centrale detenuto da un non altrimenti definito Presidente, commettono ed organizzano le più titaniche nefandezze. I Negromonte vivono in un palazzo dai fasti borbonici, in cui tutti, cugini, figlie, nipoti, convivono in tripudi di lussuoso e decadente barocco, tra copie taroccate di vasi preziosi e meravigliose bellezze dell’antichità pompeiana saccheggiate attraverso lauti acquisti dai musei. Il piano segreto ed ostentato, grandioso e criminale è quello di porre in vendita Napoli, il suo golfo, le sue ricchezze storiche per creare un grande parco dal nuovo nome Eternapoli, una nuova metropoli del piacere, delle libagioni, sede di una nuova libertà del commercio e del consumo. "Noi siamo i Negromonte, e possiamo fare quello che ci piace! E qual è il problema?" I Negromonte comprendono che lo spazio infinito delle coscienze, gli ambiti della conoscenza, dell’arte, il mercanteggiare d’immagine, il dominio del capitale spirituale possono concedere un profitto assai maggiore rispetto ai prodotti ordinari. Villa Pignatelli, la Floridiana, le bellezze storiche napoletane divengono luoghi privati, che i Negromonte riempiono con le loro amanti modificando le architetture. Questo nuovo potere, industriale, sociale, politico, fagocita tutto! Ogni cosa immonda o sublime viene da loro divorata, usata per mostrare e ricevere potere, persino il sogno d’ingegneria settecentesca di Vanvitelli, ovvero collegare attraverso un canale la Reggia di Caserta al golfo di Napoli, diviene oggetto per coltivare nuove ambizioni di potenza abusiva!

Il progetto di Eternapoli è guidato dal Calebbano e da Lo Sciacallo, i più feroci ed intelligenti dei Negromonte, ignoranti ma capaci di acquistare precettori e progettisti in grado di fornirgli razionalità e benpensare. Tutto però viene stravolto, la filosofia e la razionalità servono solo per allargare, capovolgere, stravolgere i loro contenuti e rimodellarli in nuovi piani di profitto, in nuovi sogni di tracotante e disumana grandezza. La verità non possiede più le caratteristiche della logica lineare, del principio di non contraddizione. La verità è tutto, e tutto sono i Negromonte, il loro mondo abbisogna di tutti, del ladro, della guardia, dell’idiota, del furbo, tutto diviene legittimo e vero, perché tutto deve partecipare alla scacchiera con un unico re, del potere. La verità non può più essere ricercata in carte costituzionali perché ormai è stata acquistata, ed è decaduta divenendo prodotto, proprietà privata. I Negromonte sono democratici perché hanno acquistato la legittimità del loro potere, hanno tutto quanto sia possibile immaginare di legale ed illegale, di legittimo ed illegittimo. Usano i loro volti e poteri policromi, secondo le occasioni. Nelle maglie però del potere assoluto, proprio nelle stanze dei Negromonte vive un individuo disgustato da quest’abominevole potenza: Carlo Cardano. Dandy affaticato e precocemente invecchiato, marito di Amalia, una Negromonte, Cardano, mantenuto nel lusso taroccato e disgustoso dei Negromonte, vive nella ricerca solitaria del bello e nella resistenza astratta dell’oppio, dei paradisi artificiali. Il suo segretario Roberto, cerca attraverso il sapere, la forza della conoscenza, di resistere, di non subire i giorni del quotidiano. Il titolo del romanzo, del resto, è strappato da alcuni versi di Blok, che anche messi in esergo al testo, rappresentano una traccia d’interpretazione estetica costante: Ma di questa vita menzognera/Cancella l’untuoso rossetto/E anche non vedendo l’avvenire,/dì no ai giorni del presente.

Anche il più giovane dei Negromonte, Andrea, cerca di vivere diversamente, disgustato dal suo stesso sangue, inizia a vagabondare predicando il verbo evangelico. Andrea muore mentre tutta la famiglia è riunita famelica al pranzo natalizio, il suo corpo straziato viene messo sulla tavola, ma la morte non suscita nessuna emozione. Se Andrea è stato ucciso vi sarà vendetta, se si è ucciso bisognerà dimenticarlo, eliminare al più presto il suo ricordo. Ciò che dirà la gente, ciò che accadrà al nome dei Negromonte è più importante d’ogni altra emozione o passione, poiché dalla loro immagine, i Negromonte trarranno vantaggio, solo attraverso essa, si potrà continuare a mangiare, ad arricchire, ad infliggere sogni di benessere e menzogne d’abbondanza. Il dolore per la morte del giovane eretico Andrea è immediatamente superato, il corpo viene messo da parte, i capitoni scappati dalle vasche iniziano a strisciare tra i piedi e le sedie dei commensali, che s’apprestano a mangiare temendo che le pietanze si raffreddino. Bisogna mangiare, affogarsi di cibo, godere, scialare, per conservare salute, potere, autorità e grasso. I pranzi pantagruelici dei Negromonte sono l’emblema dell’ingordigia, il momento in cui il potere e la ricchezza si sentono, si vedono, si ingoiano in tutta la loro materialità " Dopo due ore di antipasti di vongole d’’o Tirreno, di purpitielli veraci e di ostriche di Lucrino inframezzati da prosciutii del Matese ed insaccati del Benevento arrivò la minestra maritata…[..] cavolo capuccio, salame di Sorrento, la testa di caciocavallo, "o cappone casareccio [..] e ce stanno pure "e pezzantelle " Il tema del cibo è costante nei libri di Montesano. In A capofitto, Gombro e Cètero lavorano con ritmi disumani alla creazione di pizze bizzarre composte da rimasugli ed avanzi immondi ma che il nome dato, rendeva appetibili " Arrivarno gli intellettuali a frotte. Si era sparsa la voce della pizza creativa, la pizza originale, [..] Pizza-Proust, Pizza-Kafka, Pizza-Mozart, Doppia Pizza-Oliver & Hardy Pizza-Beckett…Non connettevano più, erano esigenti, gli intellettuali ! Si ! Cavavano fuori connubbi incredibili…Panna e capperi..Banana, vino e lenticchie..Rape, cervella e aglio… "

I Negromonte, la loro crassa potenza, rappresentano la volgarità dei governanti meridionali, ma il loro tipo umano, va ben oltre la caratteristica meridionale. Riassumono in completo la figura dei rampanti industriali (da Varese a Catania), della dappocaggine italiana, sempre pronta a facili soluzioni, disinteressata alle responsabilità ed alle conseguenze delle proprie azioni. Più volte nella lettura ci si ferma a riflettere con la fronte madida di gelido sudore pensando che quel tipo (umano?) di personaggi, che si incontrano come il Calebbano, o Lo Sciacallo, o il Presidente, li si conosce già bene. Si teme che la loro logica se non ha ancora intrapreso i cammini che lo scrittore ha descritto, a breve s’incamminerà verso il destino che il testo inizia ad affrescare. E si ha paura! La legge Treccarte/bis a cui i Negremonte si appelleranno per coprire i loro abusi edilizi, il politicante Marcello delle Opere che porta alla famiglia la benedizione del governo centrale, ricordano troppo bene i politici italiani. E così il lettore ha ancora più paura! Ciò che si descrive, è dietro l’angolo…

I personaggi di Montesano, come Gombro (in A Capofitto), Landrò e Tommaso (in Nel corpo di Napoli), Roberto e Cardano (in Di questa vita menzognera) vivono un desiderio di diversità, i filosofi e gli scrittori che gli scorrono nelle vene riescono a concedergli dei luoghi di trascendenza che regalano zaffate di libertà. Ma la loro è una libertà in contumacia, un esilio in cui solo apparentemente gli viene garantita la possibilità di comprendere il reale e le vicende in cui vivono. In realtà si trovano sommersi nelle contraddizioni del reale, impigliati nel ginepraio dello squallore della vita quotidiana, e non sarà certo la cultura o gli ideali filosofici a sottrarli dal loro stato, né riceveranno aiuto dai loro autori, citati per giustificare il desiderio di non lavorare, di vivere altrove, realmente, totalmente! L’unica via percorribile è la contaminazione, la condivisione, la fuoriuscita dal loro rigore intellettuale, verso un’apertura all’altro! La resistenza è divenuta quasi impossibile, i Negromonte modificano ogni cosa, la metamorfizzano, la mutano. Non è più solo questione di gestione, o malagestione! La struttura stessa della realtà è modificata, l’essenza della parola, del bello, del cemento, è indelebilmente ristrutturata, compromessa. In questa condizione, ci si renderà conto che non basterà tagliare la testa al re, o sostituire il governo, ma si dovrà tentare una trasformazione totale, una tutela radicale della perduta dignità dell’uomo. Scardanelli l’archeologo ribelle perennemente nascosto, abitante del sottosuolo, che tenta di salvare Napoli da Eternapoli cerca nei suoi sabotaggi radiofonici, nelle scritte murali, di invitare il rispetto delle parole: "Una rosa è una rosa, il pane è il pane, la verità è la verità". Pretendere che la parola sia rigorosamente legata al suo significato è un atto sovversivo; salvare i significati dal luccichio e dal trambusto che le parole subiscono attraverso i tam-tam pubblicitari ed i proclami ideologici è l’unico atto in favore del vero. E qui avviene nel romanzo una complessa alchimia. Montesano usa la letteratura, strumento della menzogna per eccellenza, per scomporre la bugia, per analizzare il suo complesso arcano. La menzogna della letteratura non possiede, se vogliamo ascoltare Giorgio Manganelli, un piano di profitto. La letteratura mente, è certo! Ma la sua è una menzogna oziosa, che non possiede un vantaggio reale. Da qui, il narratore usa a tradimento l’arte letteraria, come un ladro nella notte usa uno strumento familiare per scassinare le porte della sua casa. In breve, Montesano usa la menzogna della letteratura per sgominare la menzogna del reale.

Montesano nei suoi romanzi innesta citazioni adamantine, riflessioni filosofiche complesse in discorsi volgari, poiché il sapere quando si insinua nella vita, si contamina ed è così che può divenire strumento di dominio o grimaldello di liberazione. Giuseppe Montesano usa citazioni di versi poetici e di aforismi letterari, come una bussola, per indicare le traversate oniriche dei suoi personaggi ma spesso non sono citate le fonti, non vengono segnalati gli autori delle riflessioni o delle frasi poichè il sapere nello spazio quotidiano, a giustificazione di un crimine o come faro di ragione, non abbisogna di bibliografia. E’ vita, è morte. E’.

Di questa vita menzognera descrive lo spettacolo dell’Italia del nostro tempo, dove il sogno di essere "tutte padrune, tutte padrune", rende ciechi, biechi ad ogni proprio reale desiderio e pronti a credere ad ogni assurda promessa di felicità. Una piccola borghesia in ascesa incapace di conoscere, valutare se stessa e le proprie ambizioni. Un mondo di aspiranti dirigenti ed imprenditori che come dice Andrè Gide "non crede che possa esistere un bene diverso dalla propria idea di bene"; mai infatti sfiora il dubbio ai Negromonte che il loro agire possa essere di danno a qualcuno, ed anche se lo fosse, peggio per quel qualcuno visto che il bene, combacia col potere, col cibo, con la spensieratezza indifferente: con i Negromonte.

"Sarete giudicati sull’amore", è la morale che galleggia nel testo, una zavorra a cui i resistenti devono tendere ad aggrapparsi per non essere sommersi, per non affogare. Sull’amore, si giocherà il destino dell’individuo che non vuole ritagliarsi un lembo di libertà e benessere solo per se, perché questa solitudine lo porterebbe all’asfissia indi alla compromissione colpevole. L’amore, per Montesano, diviene una forza propulsiva che riesce nelle contaminazioni e nella contraddizione del vivere a salvarsi dallo squallore del potere, perché, aprendosi all’altro, non permette che si possa prescindere dal rispetto reciproco e dalla condivisione. Pensare diversamente, dialogare, condividere, amare, è già forse un modo di resistere allo scempio finale.

Nelle ultime pagine del romanzo Di questa vita menzognera v’è la scena del carnevale organizzato dai Negromonte a Napoli ormai Eternapoli. Sono pagine che colano il grasso accumulato durante tutta la scrittura del testo. Eserciti di Pulcinella danzanti, maschere di antichi romani, balli e canti sanfedisti, gli individui ridotti a plebe ascoltano festosi le promesse che il Calebbano dispensa attraverso televisori ed altoparlanti. Si compie l’atto eclatante del potere e del suo gozzovigliante consenso. E’ una festa dove i potenti si mostrano identici ai loro sudditi, invitano il "popolo bascio" ad imitarli nella loro bassa ignoranza ed alta brama di danaro. Tra i cori dei sanfedisti napoletani che massacrarono i giacobini dell’unica rivoluzione napoletana, quella del 1799, il piano di repressione, ingiustizia e dominio dei Negromonte, del Presidente, dei potenti d’ogni tempo e risma, si ripresenta ancora una volta come una festa, un invito alla libertà, una spinta verso l’indifferenza.

I resistenti, gli ultimi disobbedienti, Roberto con un costretto Cardano, tentano una fuga nel budello di una città chiassosa, eccitata, fibrillante ma pericolante per via del selvaggio abusivismo edilizio. Vanno verso il mare, sperano, tentano di scappare…..
Ormai "Libertè Egalitè io rubo a te tu rubi a me" è il motto da inscrivere al centro delle bandiere, ma forse è ancora possibile salvarsi. Seguire le mappature che Montesano disegna nella sua scrittura, potrebbe essere una buon’idea per tentare di scovare la via di fuga dal labirinto.

Di questa vita menzognera di Giuseppe Montesano

I Negromonte, famiglia di imprenditori partenopei senza scrupoli, arricchiti a dismisura, godono dei favori e dell'intesa del potere centrale (un Presidente appena citato) e sono padroni indiscussi della citta nonche pionieri di una nuova economia di rapina. Vivono tutti, pater-familias, fratelli, …