Fabrizio Tonello: Corte suprema. Un'istituzione per natura conservatrice

21 Luglio 2005
A che serve la Corte Suprema degli Stati uniti? Una risposta senza peli sulla lingua è venuta nel 1985 da Richard Epstein nel suo libro Takings: Private Property and the Power of Eminent Domain, dove si diceva tranquillamente che il compito della Corte è "difendere la proprietà" contro gli attentati che periodicamente la democrazia mette in atto. Epstein non è uno qualunque: dal 1972 insegna alla University of Chicago, dove è direttore del centro studi su Legge e Economia, ovvero nel cuore del più importante centro di elaborazione del pensiero neoconservatore. Per un secolo e mezzo, non c'è dubbio che la Corte abbia fatto proprio questo, resistendo ferocemente all'abolizione della schiavitù (gli schiavi erano proprietà costose), opponendosi alle leggi sull'orario di lavoro, l'impiego delle donne e dei fanciulli, l'antitrust. I primi tentativi di alleviare le condizioni dei lavoratori durante il New Deal vennero giudicati incostituzionali, perfino la ratealizzazione dei mutui degli agricoltori (‟Louisville Bank versus Radford”, 1935). Solo dopo il famoso showdown con Franklin Roosevelt, che minacciava di raddoppiare il numero dei giudici per crearsi una maggioranza favorevole, la Corte guidata da Charles Hughes venne a più miti consigli (nel frattempo il piano, passato alla storia come Court Packing, veniva abbandonato).
È nel dopoguerra, con le Corti presiedute da Earl Warren (1953-1969) e da Warren Burger (1969-1986) che le cose diventano più complesse: i nove giudici eletti a vita ampliano l'orizzonte dei diritti dei cittadini, in particolare quelli esclusi di fatto dal corpo politico americano, come i neri. I conservatori non hanno ancora perdonato a Earl Warren la sentenza ‟Brown v. Board of Education”, che imponeva la desegregazione delle scuole pubbliche, mettendo in moto il processo che condurrà alle vittorie di Martin Luther King e alla conquista di pieni diritti politici per gli afroamericani.
Nel 1963, inoltre, giunse davanti alla Corte il caso del ‟New York Times”, condannato da una giuria dell'Alabama a un enorme indennizzo nei confronti del capo della polizia di Montgomery, L. B. Sullivan, per aver pubblicato una pagina di pubblicità (pagata da un gruppo di artisti) che accusava di brutalità le forze dell'ordine. Sulla base dei precedenti, la Corte avrebbe semplicemente potuto rifiutarsi di esaminare il caso, o avrebbe potuto considerare punibile la pubblicazione dell'inserzione, equiparata a uno scritto "pericoloso o offensivo" giudicato tale "da un processo equo e imparziale".
I precedenti lo permettevano senza alcuna difficoltà e gli stessi avvocati del ‟New York Times” speravano semplicemente in una sentenza che riconoscesse la "buona fede" del giornale. Al contrario, la maggioranza della Corte scelse di prendere il toro per le corna, scrivendo che e il principio fondamentale in gioco era "un dibattito sui temi di interesse pubblico che sia non inibito, solido e il più ampio possibile e che [quindi] possa includere attacchi veementi, caustici e talvolta spiacevolmente violenti contro il governo o pubblici funzionari". Tutto ciò che si riferiva a un dibattito su temi politici, per quanto insultante fosse nei confronti di un Presidente, un governatore, un sindaco o un capo della polizia, era meritevole di protezione costituzionale, a meno che non fosse falso e che l'autore dell'articolo fosse conscio della falsità. La libertà di stampa veniva così protetta da una barriera quasi invalicabile.
Sempre nel 1963, il giudice William Brennan fu l'estensore di una sentenza oggi poco ricordata, ma di importanza capitale. In ‟Fay v. Noia”, la Corte affermò il principio che "in una società civilizzata, il governo deve essere sempre responsabile verso il potere giudiziario per ciò che riguarda la detenzione di un uomo: se la detenzione non può essere considerata conforme ai criteri fissati dalla legge, l'individuo ha diritto alla liberazione immediata". Qualcuno se ne ricorda, ora, discutendo di Guantanamo?
Questa fase di ampliamento dei diritti dei cittadini culmina nel 1973, con ‟Roe v. Wade”, la sentenza che rende un diritto costituzionale l'interruzione della gravidanza. Pessima sentenza, purtroppo. Non tanto perché le donne americane dovessero essere lasciate alla loro sorte, quanto perché in questo caso la Corte si sostituì a quella che doveva essere una decisione politica basata su un consenso largo, democraticamente legittimata da un voto del Congresso e una firma del presidente. A questo si sarebbe probabilmente arrivati qualche anno dopo, forse per una via diversa, cioè a livello degli stati, ma si sarebbe arrivati. La sentenza troncò questo processo, creando dal nulla un "movimento per la vita" che da allora si autoalimenta proprio negando la legittimità della decisione del 1973.
C'è un insopportabile elemento di cinismo politico nel modo in cui i repubblicani continuano a gettare olio sul fuoco e a flirtare con un "movimento per la vita" in cui allignano componenti violente: proprio tre giorni fa è stato condannato all'ergastolo Eric Rudolph, che nel 1998 seminò quattro bombe alle Olimpiadi di Atlanta come parte di una sua campagna contro medici, infermieri e cliniche. Tuttavia, la Corte è in parte responsabile di questa situazione, essendosi "sostituita alla politica" in una materia dove la divisione degli americani sembra insanabile.
Con le dimissioni di Sandra Day O'Connor e l'imminente ritiro di William Rehnquist finisce il ciclo di una Corte a impronta fortemente conservatrice, ma non disponibile a tornare indietro su ‟Roe v. Wade”. L'ossessione dei repubblicani di annullare questa sentenza potrebbe però trovare un limite nella comodità della situazione attuale, dove il tema rimane aperto, mobilitando milioni di credenti ad ogni elezione: attivisti cattolici e protestanti che sono necessari per la vittoria dei candidati repubblicani.
Anche sul tema dei diritti civili dopo l'11 settembre la situazione è estremamente delicata: nel 2004 proprio la O'Connor, aveva inflitto una vera e propria bacchettata sulle dita a Bush e Cheney in materia di divisione dei poteri e di competenze della magistratura: "il sistema di checks and balances sarebbe rovesciato se un cittadino non potesse contestare in tribunale le ragioni fattuali della sua detenzione semplicemente perché il governo rifiuta di discuterne" (‟Hamdi v. Rumsfeld”). La chiave della sentenza stava nel ribadire che l'approccio dell'Amministrazione nella guerra al terrorismo "serve soltanto a concentrare il potere" nell'esecutivo ed è quindi costituzionalmente intollerabile. Anche uno stato di guerra, aveva stabilito la Corte, "non costituisce un assegno in bianco per il presidente quando si tratta dei diritti dei cittadini" . C'è da dubitare che la corte di John Roberts, che tra qualche mese sarà probabilmente presieduta da Antonin Scalia, dimostrerà altrettanta indipendenza e preoccupazione per i diritti inalienabili dei cittadini fissati nel ‟Bill of Rights”.

Fabrizio Tonello

Fabrizio Tonello (1951) insegna Scienza dell'Opinione Pubblica presso l'università di Padova. Ha insegnato anche nel Dipartimento di Scienze della Comunicazione presso l'università di Bologna e nella Scuola Internazionale Superiore di …