Gianni Riotta: Dopo l’uragano. Stati Uniti senza guida né simboli

05 Settembre 2005
Il razzismo non c’entra nulla con la catastrofe naturale di New Orleans e la penosa mancanza di reazione davanti all’emergenza, da parte dell’amministrazione americana del presidente George W. Bush. Le accuse del focoso reverendo Jesse Jackson, le denunce dei deputati del comitato afroamericano alla Camera, i leader dell’opposizione che si mobilitano, persuasi che Bush abbia ‟punito” gli elettori neri per lo storico sostegno ai democratici, sono ottima propaganda ma cigolante analisi. Nessun presidente ha dato tanto spazio ai neri, con Colin Powell e Condoleezza Rice a guidare dal 2000 la politica estera nel corso della guerra al terrorismo. È quindi scontata la reazione della Rice, cresciuta nell’odio della segregazione razziale nel Sud: il razzismo non c’entra. Quel che Bush e i suoi ministri, con il vicepresidente Dick Cheney, non sanno cogliere è il clima che alimenta il sospetto di razzismo verso le minoranze e di abbandono dei più poveri nei ghetti della Louisiana. È il loro ossessivo parlare il linguaggio di metà del Paese, seguire la cultura e i modi di metà dell’America, detestando e denigrando l’altra metà, la loro pervicace chiusura nella torre d’avorio del privilegio, dell’appartenenza e della forza che li ha isolati da gran parte dell’opinione pubblica mondiale e dalla sezione più umile degli Stati Uniti. Quando Katrina ha colpito, Bush era in vacanza nel suo ranch, Cheney forse a caccia, la Rice a New York e il capo di gabinetto Andrew Card in villeggiatura in Maine. È questa la giusta disposizione dello stato maggiore di un Paese che si sente, giustamente, in guerra? È questa l’immagine in cui farsi cogliere davanti a un ciclone annunciato? No. È come se Bush, partito sbiadito nella sua amministrazione, motivato e messo a fuoco dall’11 settembre 2001, efficace nel tenere insieme Paese e alleati nella liberazione dell’Afghanistan dai Talebani, abbia consumato le residue energie politiche e nervose nella guerra all’Iraq e nella campagna elettorale contro John Kerry un anno fa. Anzichè correggere la rotta a Bagdad e fare della pacificazione dell’Iraq un vero momento di unità nazionale, Bush si incaponisce nell’aver ragione da solo, logorando il consenso popolare della presidenza e isolandosi in gesti petulanti, come il non dare nuova udienza alla signora Sheehan, mamma di un caduto. La storica debacle di New Orleans, che a lungo animerà il dibattito politico interno e deteriorerà l’immagine internazionale degli Usa, è frutto di questa progressiva paralisi della leadership di Bush, non di razzismo. La distanza che la Casa Bianca ha lasciato crescere tra sé e la parte del Paese che non ne condivide le battaglie, giuste o sbagliate che siano, è diventata un diserto di valori condivisi, la vera e più ricca tradizione americana. Ronald Reagan, campione repubblicano, e Bill Clinton, campione democratico, avrebbero saputo mostrare davanti alle acque limacciose di New Orleans il volto nobile del presidente, figura che i padri della Patria coniarono sul modello del re britannico per governare sì, ma soprattutto rappresentare e unificare la nazione nei momenti difficili. È la sfida che George W. Bush sta perdendo in queste ore tristi, quando l’America appare al mondo come un Paese povero, sofferente, senza guida e senza simboli. Il contrario esatto della tradizione migliore degli Stati Uniti.

Gianni Riotta

Gianni Riotta, nato a Palermo nel 1954, ha studiato all’Università di Palermo e alla Columbia University di New York. Ha lavorato come giornalista per varie testate da Roma e da …