Fabrizio Tonello: Banlieue. Una guerra a bassa intensità

10 Novembre 2005
‟Solo” 617 auto bruciate, l'altra notte. Ci si abitua a tutto, a quanto pare: a scontri quotidiani, ai cassonetti e alle auto distrutte, anche al coprifuoco resuscitato grazie a una legge del 1955, quando la Quarta repubblica teneva i suoi battaglioni da Algeri fino a Saigon. Sui mass media si parla di guerriglia urbana. Forse ‟guerriglia” è una parola grossa: fa pensare a Che Guevara, ai vietcong, ha un tono eroico, un respiro di grandi cose. Quelle della banlieue parigina, invece, sono piccole cose. Piccole cose violente, senza speranza, senza avvenire, come quelle che si leggono nei mattinali delle prefetture o nei romanzi giovanili. Protagonisti che lavorano quando capita: si chiama ‟flessibilità”, concetto assai in voga nei palazzi con gli stucchi dorati, siano essi in rue de Matignon o in piazza Montecitorio. Che una generazione senza speranza dovesse, prima o poi, reagire così c'era scritto nel rapporto della commissione d'inchiesta parlamentare guidata da Bernard Stasi, 400 pagine fitte di grafici e tabelle. Gli incendi nelle banlieues testimoniano del grado zero della politica: non si è vista neanche una scritta sui muri per dire ‟Sarkozy, dimettiti!”. A Sarcelle, a Clichy, a Aubervilliers tutti odiano il ministro degli interni ma nessuno chiede che se ne vada, il movimento è totalmente afasico, una rivolta senza obiettivi, una jacquerie più primitiva di quelle contadine del XVII secolo.
L'unico paragone recente sono i riot di Los Angeles nel 1992, il caso Rodney King. Quelli, almeno, avevano alle spalle una lunga storia di discriminazione razziale legalizzata, una povertà intrecciata alle condizioni secolari dei neri. Un movimento che aveva saputo esprimere, negli anni Sessanta, Martin Luther King, nel 1992 non seppe produrre nulla se non saccheggi. Los Angeles, almeno, chiedeva giustizia per il brutale pestaggio immortalato su videotape: a Parigi, a Tolosa, a Marsiglia l'agitazione dura da due settimane e non si è sentito nemmeno chiedere un'indagine indipendente sulla morte dei due giovani a Clichy-sous-bois, che ha dato inizio alle rivolte. Non una parola d'ordine, un leader, una rivendicazione. Tanto era politicizzato e creativo il maggio 1968, tanto è disperato e senza obiettivi il novembre 2005. Certo, dal 1968 sono passati 37 anni in cui si è fatto di tutto per eliminare non solo l'idea di una società diversa, ma anche per ridurre la politica all'amministrazione del consominio (anzi, dei condomini in centro, i casermoni di periferia si arrangino).
La ‟pulizia intellettuale” post-68 ha avuto come protagonisti proprio gli intellettuali francesi alla moda, i Bernard-Henry Lévy, André Glucksmann, Alain Finkielkraut che hanno gettato con entusiasmo la parola ‟Utopia” nei cassonetti della spazzatura della Storia. Adesso i cassonetti gli esplodono in faccia, incendiati non in nome del comunismo, ancora meno dell'islam radicale, ma della semplice disperazione metropolitana. Sarkozy, come del resto Bush o Berlusconi, sono del tutto indifferenti all'idea che, a 10 minuti di metropolitana dagli Champs Elysées, dalla Casa Bianca o dal Colosseo, vivano centinaia di migliaia di persone senza prospettive, delle ‟vite di scarto” come le chiama Zygmunt Bauman. A loro va benissimo una guerra a bassa intensità, con uno scontro oggi, un accoltellamento domani, aggressioni agli ‟stranieri” come dato permanente della vita quotidiana. Gli Stati uniti hanno scelto di pagare questo prezzo: nelle loro galere sono rinchiuse oltre 3 milioni di persone, cioè una percentuale sulla popolazione maggiore di quella del Sudafrica dell'apartheid. Se vogliamo pagarlo anche noi, non dobbiamo che continuare a far finta di nulla, come se la coesione sociale fosse un problema che non ci riguarda.

Fabrizio Tonello

Fabrizio Tonello (1951) insegna Scienza dell'Opinione Pubblica presso l'università di Padova. Ha insegnato anche nel Dipartimento di Scienze della Comunicazione presso l'università di Bologna e nella Scuola Internazionale Superiore di …