Massimo Mucchetti: La “public company” di Collecchio può diventare un campione nazionale?

04 Novembre 2005
I banchieri, fatti i loro conti, hanno lasciato il timone in mano a Enrico Bondi. La scadenza del 31 ottobre è passata e l’unica lista per il consiglio di amministrazione della nuova Parmalat è quella del commissario uscente. L’ipotesi di una discesa in campo delle banche, già creditrici e ora azioniste, sarebbe stata possibile nel caso Bondi, riportata in Borsa la società, avesse lasciato gli uffici di Collecchio. In quel caso, le banche avrebbero spiegato il loro intervento con l’urgenza di evitare vuoti di potere. Ma il manager non si è ritirato. Ed è stato un bene perché, adesso, tutto è più chiaro, anche se nulla può dirsi definitivo. Tutto è più chiaro, perché si evita che alla guida della società vadano quelle stesse banche verso le quali l’amministrazione straordinaria ha avviato numerose cause per ottenere revocatorie e risarcimenti per decine di miliardi. Bondi aveva voluto uno statuto che sterilizzasse i conflitti d’interesse immanenti nei soci bancari. Ma è con la sua permanenza in campo che si depotenzia la tentazione di chiudere le azioni legali con un tozzo di pane e di pilotare la Parmalat verso acquirenti precostituiti. Le cause offrono un sostegno rilevante, ancorché assai fluttuante, alle quotazioni della matricola. Se è vero che il valore dell’azienda industriale è stato indicato da Bondi in 1,9 miliardi e la capitalizzazione di Borsa oscilla dai 3,5 ai 5 miliardi, ciò vuol dire che il mercato si aspetta incassi dalle cause pari alla volatile differenza. E si tratta di risorse che potranno offrire non solo un parziale ristoro ai soci vecchi e nuovi, ma anche il combustibile per la crescita. Parmalat poteva essere abbandonata al fallimento. Il governo ha invece deciso di commissariarla al duplice scopo di conservare i posti di lavoro e di salvaguardare il più possibile l’integrità di un gruppo alimentare tra i maggiori in Italia benché fatturi meno di 4 miliardi e abbia una specializzazione a basso valore aggiunto in un mondo dove Unilever e Nestlé fatturano 10-15 volte tanto e rendono il doppio grazie a una ben più diversificata linea merceologica. Parmalat è stata dunque trattata come un "campione nazionale". La scelta di un professionista con la storia di Bondi ha proprio questo significato. Ma l’epilogo della più importante esperienza di Bondi, il salvataggio del gruppo Ferruzzi-Montedison, ci avverte che, in mancanza di una compagine azionaria capace di un pensiero strategico, il tricolore viene presto o tardi ammainato da raider e concorrenti. Forze contro le quali Bondi non è andato ieri e non vuole né potrà andare domani. La nuova Parmalat è una public company che gioca la sua partita sul mercato alimentare e su quello dei diritti di proprietà. Bondi si prefigge di arrivare a un margine operativo lordo di 450 milioni pari al 11,6% dei ricavi entro il 2007. Se ce la farà, il gruppo genererà abbastanza cassa da azzerare l’attuale posizione finanziaria netta che è passiva per mezzo miliardo. Questa prospettiva rende la nuova Parmalat un’azienda capace di sostenere un debito di 2,5 miliardi. E questo attirerebbe i compratori come le mosche sul miele. Ma il valore comunque elevato che il mercato attribuisce ai claims e incorpora nell’azione può forse fare da scudo. Il valore reale delle cause è infatti imprevedibile, e dunque difficile da giustificare per un compratore che lo debba estendere da un semplice pacchetto azionario all’intero capitale. Difficile ma non impossibile. Ed è per questo che si fatica a immaginare come questo "campione nazionale", che Bondi mette sul mercato, possa rimanere solo più di tanto.

Massimo Mucchetti

Massimo Mucchetti (Brescia, 1953) è oggi senatore della Repubblica. Ha lavorato al “Corriere della Sera” dal 2004 al 2013. In precedenza, era stato a “l’Espresso” per diciassette anni. E prima …