Gianni Riotta: Milosevic. Il processo che non funzionò

14 Marzo 2006
Chi, come noi, ha sostenuto la Corte penale internazionale contro gli abusi ai diritti umani, la missione alleata che mise fine alle stragi e ai pogrom nei Balcani e ha denunciato senza ritardi le colpe del despota serbo Slobodan Milosevic, non può che giudicare l’esito fatale del processo a suo carico all’Aja come una delusione e una sconfitta. Per il tribunale, per il diritto e soprattutto per le centinaia di migliaia di vittime, che si vedono negata giustizia. La morte di Milosevic appare già sui giornali di Belgrado come destino vincente di un eroe. Perfino la radio storica dell’opposizione, B92, riceve messaggi di cordoglio. La famiglia si prepara a celebrare le esequie del ‟martire” e la causa nazionalista, i crociati sconfitti di persecuzioni, pulizia etnica, torture e stupri, si scaldano in Serbia. Il boia dei bosniaci e dei kosovari ha vinto la battaglia giudiziaria. Qualunque sia l’esito dell’autopsia, attacco cardiaco o suicidio, la leggenda è assicurata per i suoi seguaci, e già i siti Internet si riempiono di teorie del complotto, Milosevic ‟suicidato”, come il coimputato serbo-croato Babic. Davanti a uno scacco così grave stupisce quanto la procuratrice capo della Corte dell’Aja, signora Carla Del Ponte, dichiara in un’intervista su ‟Repubblica” a Liana Milella: ‟Non ho avuto assolutamente alcun ripensamento. Neppure oggi. Se avessi la possibilità di tornare indietro, rifarei esattamente tutto quello che ho fatto. Imposterei le mie indagini e il mio atto di accusa proprio nello stesso modo”. Questa cocciutaggine, spinta a un filo dall’arroganza, è il tallone di Achille di una magistrata altrimenti coraggiosa e esperta. Sul suo ingenuo piacere di credersi ‟tutta d’un pezzo” Milosevic ha costruito una strategia difensiva che la morte ha premiato, beffando la giustizia. Qualche mese fa provammo a spiegare perché, sulla linea Del Ponte, il processo Milosevic era avviato a sicuro fallimento, raccomandando l’immediato cambiamento di rotta e auspicando che al processo per i crimini contro l’umanità a Bagdad, alla sbarra Saddam Hussein, non si seguissero le orme dell’Aja. La procuratrice capo rispose con una lunga lettera dai toni irridenti, il cui contenuto si può condensare in ‟lasciatemi lavorare, ragazzini”. Che abbia lavorato male non avevamo dubbi e, poiché la sua sconsolata ammissione ‟il processo purtroppo è finito”, non è seguito da alcuna autocritica, c’è da temere per il futuro del tribunale. Non riproporremo ai lettori - e alla signora Del Ponte - le nostre obiezioni comprovate dai fatti. Citeremo, dalla stessa pagina di ‟Repubblica”, un ottimo intervento del primo presidente del tribunale dell’Aja, Antonio Cassese: ‟Il procuratore e i giudici non si sono resi conto che era necessario evitare un megaprocesso... Milosevic aveva deciso di usare la corte di giustizia come una tribuna politica... bisognava spezzare i tre filoni dell’accusa (Kosovo, Bosnia-Erzegovina e Croazia) in tre distinti processi, ciascuno breve e concentrato. L’accorpamento dei tre ha portato invece a un processo troppo lungo e faticoso”. È una perfetta disamina della débâcle Milosevic. È dunque tutto perduto? No. La strada faticosa per una giustizia internazionale contro i crimini perpetrati dai dittatori e dai criminali di guerra continua, malgrado la battuta d’arresto sofferta a L’Aja. Occorre però adesso stringere i tempi per la cattura e la messa alla sbarra dei complici di Milosevic, Karadzic e Mladic, sulle cui mani pesa il sangue di Srebrenica, costringendo i loro padrini serbi e croati a consegnarli, se la marcia di integrazione verso l’Europa vuole proseguire. Ma il processo a loro carico deve essere diverso dal pasticcio Milosevic, niente 66 capi d’accusa, un reato preciso alla volta. I tribunali internazionali, ecco il tono sottile cui la signora Del Ponte è sorda, si celebrano non solo tra cavilli giuridici, ma soprattutto nel foro globale dell’opinione pubblica. Milosevic ha puntato lì le sue carte e, despota duro fino alla fine, ha vinto, eludendo la condanna. Gli americani, la cui opposizione pregiudiziale alla Corte penale internazionale ha contribuito a complicare i dossier dell’Aja, hanno imparato la lezione e giudicano Saddam su un capo d’accusa snello e preciso. Una condanna in tempi brevi per Karadzic e Mladic potrebbe riequilibrare la vergogna della morte senza sentenza, dopo oltre quattro anni di processo e con ancora due di dibattimento previsti, per Slobodan Milosevic, il duce di Belgrado. Lette le intenzioni della procuratrice Del Ponte di continuare come se nulla fosse, dubitiamo però che, con lei al timone, avremo mai una sentenza per i due boia. E ci stringe il cuore, ripensando alla mattanza tragica dei Balcani, cuore della nostra Europa.

Gianni Riotta

Gianni Riotta, nato a Palermo nel 1954, ha studiato all’Università di Palermo e alla Columbia University di New York. Ha lavorato come giornalista per varie testate da Roma e da …