Gianni Riotta: Hamas. Prima la fermezza poi il dialogo

20 Aprile 2006
David Manshirov e Jahoun Ismilov, cugini diciassettenni, lavorano in cucina alla trattoria The Mayor’s Falafel, colpita lunedì a Tel Aviv da un kamikaze della Jihad Islamica, con nove morti e dozzine di feriti. Tra loro David e Jahoun, scampati a un primo attentato, a gennaio: ‟In famiglia ci han detto, licenziatevi, è troppo pericoloso, ma siamo emigrati dalla Georgia, dobbiamo lavorare”. Ecco i nemici della Jihad, ecco i ‟colonialisti” che il governo palestinese di Hamas disprezza come complici ‟dell’occupazione di Israele”: troppo spesso, nel giudicare con fatica l’evolversi dell’atlante geopolitico in Medio Oriente ci dimentichiamo delle vittime in carne ed ossa, tutte, stavolta due poveri lavapiatti emigrati per scampare alla fame e alla discriminazione, colpiti da un odio secolare. Hamas è al palo. Il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha condannato l’attacco kamikaze senza mezzi termini, la Jihad Islamica promette altri blitz come quello di Sami Hammad, 21 anni. Il governo, ottenuto con le elezioni promosse dal presidente americano George W. Bush, impone ad Hamas un arduo dilemma strategico. Se si unisce ad Abbas nel dire basta agli attacchi contro civili inermi, se ferma la pioggia di razzi da Gaza contro le case israeliane, cede il monopolio della violenza alla Jihad. Da parte sua Hamas osserva una tregua da mesi, ma non ha la maturità morale e la sagacia politica di avviare il riconoscimento di Israele, come pur dovrebbe per continuità istituzionale con la diaspora di Arafat. Hamas può sciogliere il dilemma in modo tragico, confondendosi con i jihadisti, oppure innescare una lenta mutazione e abbandonare infine il Dna del terrore. Perché la crisi non precipiti in caos la formazione islamica va fronteggiata con risolutezza e ieri il neopremier di Israele, Ehud Olmert, ha trattenuto l’ira dei suoi e non ha scatenato subito la rappresaglia: vuol continuare sulla strada di Ariel Sharon, cedere una nuova patria ai palestinesi, assicurando confini pacifici. Israele ha disperato bisogno di un interlocutore, colpire alla cieca non serve. Gli americani, lanciata la scommessa delle elezioni, sono ipnotizzati dall’Iran e tocca agli europei decidere il da farsi, dopo il no ai finanziamenti finché Hamas non rinunci al terrore. Il nuovo governo del centrosinistra, in gestazione a Roma, deve insistere con razionale fermezza, senza sostenere ministri che perseguitano David e Jahoun. Olmert, per primo, sa che alla fine il negoziato è indispensabile, ma non attraverso ammiccamenti e traccheggiamenti, che incoraggino in Hamas i peggiori istinti e la gelosia di cedere l’aura macabra del martirio ai jihadisti. Il dialogo segue la prova di forza, se la precede implica impotenza. Un’intervista del presidente Prodi alla rete al Jazira è stata ricondotta dal portavoce Sircana nell’alveo del no europeo ad Hamas e un puntiglioso corsivo del foglio ‟Europa”, vicino alla Margherita, ha chiamato il resto della coalizione al senso comune. Laddove purtroppo non mancano, in altre testate che pur si accingono ad appoggiare il nuovo governo, voci che spacciano per ‟dialogo” il cinico ‟gli israeliani se lo meritano”. Il voto palestinese ha stanato Hamas in campo aperto. Può accettare l’invito del mondo e cambiare. O arroccarsi nell’odio. La maggioranza degli israeliani è pronta a saggiare la prima ipotesi e, conferma un sondaggio Pew, la maggioranza delle coscienze islamiche dice basta al terrorismo suicida. Non è però con l’opportunismo di don Abbondio che si mette Hamas davanti a un aut aut senza ritorno, è con la coscienza del cardinal Borromeo. L’Italia non può sbagliare.

Gianni Riotta

Gianni Riotta, nato a Palermo nel 1954, ha studiato all’Università di Palermo e alla Columbia University di New York. Ha lavorato come giornalista per varie testate da Roma e da …