Federico Moccia: Di una città conosci gli aspetti, i luoghi...

31 Agosto 2006
Di una città conosci gli aspetti i luoghi che più ti somigliano. La guardi e la riguardi come guarderesti te stesso allo specchio. Per questo ad un certo punto un luogo non è più solo un luogo, un punto segnato sulla cartina. Prendi un ponte, ad esempio, abituato a collegare due sponde. Se ne sta lì da anni, a guardare il Tevere che gli scorre ai piedi e il traffico cittadino che gli passa sopra, sotto, ovunque. Fermo fermo, bianco bianco, permette al mondo di muoversi. Perlomeno a quello romano. Fa talmente parte del paesaggio che molti nemmeno più lo chiamano col nome suo. Per tutti è il ‟ponte di Corso Francia”. 
Eppure un nome ce l’ha: Flaminio, dalla vicina ed omonima via consolare. In verità prima lo avevano chiamato anche in altri due modi, ‟Ponte XXVIII Ottobre” e ‟Ponte della Libertà”. Ma poi Flaminio vinse sugli altri. 
Un ponte, dunque. Bello, luminoso, con tanto di colonne e torri marmoree che sorreggono suggestivi lampioni. E una statua della lupa. E cippi su cui trovi le distanze delle località che puoi raggiungere se prendi la Cassia e la Flaminia. 292 metri di bianco. Se consulti una guida trovi la sua storia. Scopri che è stato progettato nel 1932 dall’architetto Armando Brasini, iniziato nel 1939 e finito dopo la guerra, nel 1951. 
Leggi che è realizzato in calcestruzzo e rivestito di travertino. 
Ma non basta. Non può bastare. Un posto lo vedi davvero solo se ci vai, se lo tocchi, se mischi il tuo odore col suo. Solo così diventa tuo. Un posto diventa speciale perché qualcun altro prima di te lo ha scelto come simbolo, magari di un amore. Prendi Step, ad esempio. Prendi il suo amore per Babi. Flaminio quella notte non fu più solo un ponte: diventò la lavagna per gridarlo a tutti, ma soprattutto a lei. E prima ancora, anni fa, un’altra mano divertita e innamorata, la buttò un po’ più sul concreto e scrisse di Cathia che aveva ‟il più bel culo d’Europa”, che forse sempre amore è. Perché di un posto, come diceva Calvino, ‟non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda.” Forse allora è per questo che quel ponte non è più solo un ponte abituato al grande traffico cittadino. Diventa qualcos’altro. Un simbolo. Un’idea. 
Come per Step. Come il protagonista selvaggio e ribelle di Tre metri sopra il cielo. Di una storia d’amore passionale e sofferta, ostacolata dai genitori di lei. Una storia che sfocia in un’alba d’amore in una casa sulle rocce ad Ansedonia. E il giorno dopo quella scritta, indelebile, per sempre, come vorrebbe essere il primo amore: ‟io e te... Tre metri sopra il cielo.” 
Oggi quel luogo, raccontato nel film, lo identificano come una sorta di ‟meta degli innamorati”, quelli felici e quelli delusi. Quel ponte, forse stufo di essere solo un ponte, che si diverte a sentirsi quasi un ‟oracolo”, un po’ come a Delfi. E le persone, quelle che prima passavano soltanto, ora si fermano. E lo guardano. Lo additano. Spesso si baciano davanti alle sue colonne. Gli affidano un sospiro d’amore, una dedica, una richiesta di scuse, una promessa di vita, un ‟persempre” scritto tutto attaccato. 
Ieri passavo di là. Ho parcheggiato la moto e sono sceso. Ho percorso il viadotto, quella linea chiara, a piedi, con calma, osservando tutto con attenzione. Lo spazio bianco dove anni fa avevo letto di Cathia e che tanto mi aveva fatto ridere, ora è pieno di altre parole, sempre d’amore, sempre di gente che si cerca, si è trovata o si è persa. Sempre di più. Un diario. 
Un muro. Rifletto. Quei gesti incerti ed impulsivi, quelle frasi ad effetto traboccanti di sentimenti, in concreto diventano scritte e le scritte imbrattano. Forse al ponte non fa piacere essere disegnato così, sembrare quasi un muro di periferia. Forse. Forse Step ha dato un cattivo esempio. 
Poi di colpo mi vengono in mente altri luoghi, altri posti eletti a simboli d’amore e pieni di scritte: la cosiddetta Casa di Giulietta, a Verona, col balcone dal quale si affaccia la statua dell’innamorata shakespeariana. La Via dell’Amore, tra Riomaggiore a Manarola, alle Cinque Terre... Forse l’amore andrebbe scritto solo nei libri, nelle mail, negli sms. Forse non avrebbe bisogno di essere manifestato così, splendido e sfacciato, come un tatuaggio sulla pelle marmorea di un ponte romano. Ma come diceva Oscar Wilde ‟So resistere a tutto, fuorché alle tentazioni”. 
Osservo ancora le colonne, prima d’andar via. Tra i vari ‟Io e te...”, ‟Ho voglia di te”, ‟M+F uniti per sempre”, trovo anche ‟Ama come se la delusione non esistesse e scrivi come se non dovesse leggerti nessuno”. Non posso farci niente. Amo quel ponte da sempre ed oggi ancor di più, per i segni d’amore che porta addosso, come un guerriero dopo battaglie inenarrabili, come un fratello che accoglie uno sfogo e ti dà una pacca sulla spalla. Muto ed affidabile, messaggero fedele. 
Me ne vado. E mi domando se il cielo di fine agosto, stufo delle nuvole che hanno nascosto le stelle, non abbia deciso all’improvviso di cadere a terra proprio sul Ponte Flaminio, trasformarsi in marmo bianco ed accogliere così tutti i desideri d’amore rimasti orfani di stelle cadenti. 
Ma tutta la bellezza dell’amore non si può raccontare con un semplice graffito. Non mi è bastato un libro per poterlo esprimere. Non scrivete su quel ponte. È appartenuto a Step e alla sua bellissima storia d’amore. Ma era un libro, Tre metri sopra il cielo. Sono sicuro che non sono stati alzati sufficienti muri, non ne esistono abbastanza, per poter scrivere tutto ciò che provate per lei o per lui. Quell’amore bello, silenzioso, educato, delicato, unico, vostro, che non può essere ridotto ad un’unica frase. Ti amo scrivetelo ogni giorno con il vostro cuore.

Federico Moccia

È autore per la televisione e sceneggiatore per il cinema. Tre metri sopra il cielo (2004), il suo primo romanzo, pubblicato da Feltrinelli, ha superato la soglia di un milione …