Gianni Riotta: “Terrorismo più forte”

12 Settembre 2006
‟Inutile parlare di guerra al terrorismo, il nemico è come un virus, non un’armata in campo”. Dal suo studio di presidente al Council on Foreign Relations di New York, Richard Haass, l’ambasciatore che ha coordinato la politica estera al Dipartimento di Stato per il presidente Bush, fa un amaro bilancio a cinque anni dall’11 settembre: ‟La guerra in Iraq è stata uno storico errore. Vinciamo ora se togliamo ad Al Qaeda le nuove reclute, privandola di legittimità e motivazione”. La palazzina neoclassica all’angolo di Park Avenue, a New York, è il crocevia del mondo. Passa il presidente della Commissione europea Barroso, litiga il ministro della Difesa Rumsfeld, ammonisce il decano di Israele, Shimon Peres, si fa ammirare il mantello del presidente afghano Karzai. Il 28 tocca a Romano Prodi sottoporsi alle domande dei membri del Council on Foreign Relations, dal 1921 il più esclusivo centro studi di politica internazionale. Nel salone, la copia della rivista Foreign Affairs, con l’articolo firmato X, 1947, pseudonimo di George Kennan, la strategia del ‟contenere” l’Urss. Su un altro fascicolo le note di pugno di Lenin. Oggi il Council è retto dal presidente Richard Haass, discreto ambasciatore nato a Brooklyn, ‟Rhodes Scholar” a Oxford come l’ex presidente Clinton. Haass ha lavorato con Bush padre ai tempi della prima guerra a Saddam Hussein e quando è toccato a George W. Bush arrivare alla Casa Bianca, il segretario Colin Powell ha chiamato ancora Haass a dirigere la strategia politica del Dipartimento di Stato, nei durissimi mesi dall’11 settembre 2001 alla seconda guerra del Golfo. Il bollettino che l’ambasciatore stila nell’anniversario della strage alle Torri Gemelle non ha trionfalismi: ‟La minaccia del terrorismo s’è dispersa, s’è fatta capillare. In Iraq si sta formando una nuova generazione di terroristi e la radicalizzazione nel mondo islamico porta reclute al terrore. Il pericolo cresce. Queste son le cattive notizie. Le buone dicono che l’intelligence è migliorata e il coordinamento antiterrorismo tra i Paesi è cresciuto. L’offensiva del terrorismo fondamentalista è più forte che l’11 settembre, ma anche noi siamo più forti. Difficile dire chi sta vincendo la guerra”.

Lunedì, per commemorare i caduti nella strage di al Qaeda, il presidente Bush, in difficoltà nei sondaggi, parlerà di guerra al terrorismo ed esportazione della democrazia. Funziona?
Sono scettico. Non credo sia efficace parlare di "esportare la democrazia" come una merce, al massimo potremmo parlare di diffonderla. Ma, in ogni caso, ci vogliono generazioni perché le istituzioni democratiche si radichino in una società e nel frattempo la scelta liberale non ha effetto su chi s’è già arruolato nelle file della jihad. Per chi crede, come i militanti di al Qaeda, che si debba tornare al Califfato islamico del VII secolo, la democrazia non è attraente e del resto abbiamo visto cittadini inglesi pachistani, ben ambientati a Londra, scegliere il terrorismo e seminare morte.

Dopo l’11 settembre il fondamentalismo ha colpito a Madrid, a Londra, Bali, in Indonesia, Egitto, India. L’Afghanistan brucia, con l’attacco all’ambasciata Usa e al contingente militare italiano. Come vincere?
Credo che "guerra al terrorismo" sia una pessima metafora. Le guerre, anche quella dei Trent’Anni, hanno un inizio e una fine, un nemico preciso. La minaccia di al Qaeda è un virus, non opera in un campo di battaglia, ma nei ristoranti, in metropolitana, negli uffici. Se colpisce dobbiamo reprimerlo e risanare l’ambiente dove prospera, non illuderci di spiantarlo. Il terrorismo fondamentalista sarà attivo per decenni e va sradicato anche con le armi: ma la forza non è la risorsa principale. Conta quel che si predica nelle moschee, nelle scuole. Contano l’intelligence, la polizia, la diplomazia.

Nel sito del Council, www.cfr.org, lei parla di ‟togliere ai terroristi legittimità e motivazioni”. Che significa? ‟Deve passare il tabù che non si possa essere insieme un buon arabo, un buon musulmano e un terrorista. I kamikaze devono essere disprezzati, non ammirati dai ragazzi e dalle ragazze del Medio Oriente. Ma noi occidentali siamo, su questo, poco credibili, la battaglia per il consenso, l’egemonia sulle coscienze, tocca ai leader islamici e arabi. I politici in tv, i religiosi con le fatwa, gli intellettuali con i libri. Quando Hezbollah ha rapito i soldati israeliani c’è stato qualche buon segnale di condanna tra gli arabi. Sulle motivazioni il discorso è più sottile. I militanti radicali non cambiano idea perché noi ci impegniamo a risolvere la questione palestinese, odiano la vita moderna, non si recuperano. Ma per gli altri musulmani che Stati Uniti ed Europa negozino una pace stabile tra palestinesi e Israele conta. E conta la tregua in Libano. Dobbiamo trovare un consenso tra sunniti e sciiti in Iraq. Non è possibile debellare il terrorismo, ma si può indebolirlo e vivere in libertà e nel benessere.

Ieri sul ‟Corriere” lo studioso Allison ha detto che occorreva occuparsi di Iran, prima che di Iraq.
Vero. In Iraq la guerra è stata un doppio errore storico, non andava fatta o andava fatta in modo da vincerla. Adesso possiamo solo sperare di evitare la guerra civile. In Iran temo che la diplomazia arrivi tardi, ma l’alternativa, un’operazione militare, è poco razionale, siamo costretti al negoziato.

Resta il Libano, presidente…
È bene che gli italiani e gli europei siano andati con la forza di pace. Ma non potranno disarmare Hezbollah e al massimo ritarderanno la nuova guerra con Israele. I caschi blu comprano tempo, speriamo che in fretta il governo di Siniora smobiliti i miliziani del Partito di Dio. Serviva però il gesto, come carta utile alla cruciale ricerca di consenso e legittimità.

Gianni Riotta

Gianni Riotta, nato a Palermo nel 1954, ha studiato all’Università di Palermo e alla Columbia University di New York. Ha lavorato come giornalista per varie testate da Roma e da …