Massimo Mucchetti: Le veltronomics: più occupazione e cultura-business. Ma la “sua” Roma delude su trasporti e sicurezza

03 Luglio 2007
L’estate scorsa, prima del decreto Bersani, Roma aveva 5800 taxi. Di fronte alle proteste, il sindaco Walter Veltroni non si schierò tra i pasdaran della liberalizzazione, ma aprì un dialogo con i taxisti. Risultato: Roma avrà 1.450 auto bianche in più, delle quali 900 già in strada. Il Comune sta poi assegnando 300 nuove licenze senza aumentare le tariffe. Non è la perfezione liberista, ma Milano, guidata dal sindaco-imprenditore Letizia Moratti, non fa di più, anzi. I taxisti mugugnano sempre, ma nei limiti. Forse perché lo sviluppo della capitale pare destinato ad aumentare la domanda di mobilità. La liberalizzazione cauta dei taxi anticipa le veltronomics prossime venture. Diversamente dai teorici della City e dai radicali made in Fiom, Veltroni non crede che la guerra sociale sia levatrice della storia migliore. Come hanno già osservato i politologi, il ‟suo” Campidoglio cerca di includere, non di escludere: i pubblici dipendenti non sono la versione italica dei minatori del Galles, da piegare per dare un esempio; gli immigrati rappresentano una risorsa; gli imprenditori non sono sfruttatori da sconfiggere per il riscatto delle plebi. L’asse con la Camera di Commercio, presieduta dall’intramontabile Andrea Mondello, si rivela fondamentale non solo perché assicura a Veltroni, come già prima a Francesco Rutelli, il consenso confindustriale, quanto e soprattutto perché la politica dell’inclusione non può rinunciare a far leva sulle risorse private, come dimostra anche la nuova Fiera di Roma. Le veltronomics non nascono in laboratorio, ma nel crogiolo dei primi anni Novanta. Tangentopoli, le privatizzazioni e la riduzione della spesa pubblica avevano messo a dura prova la capitale, senza che la svalutazione della lira potesse aiutare come al Nord. Nel 1991, i dipendenti delle pubbliche amministrazioni residenti a Roma erano 192 mila, pari al 17,7% delle forze di lavoro; adesso sono scesi a 141 mila, pari al 13%. La caduta fu verticale nel triennio 1993-’96: meno 30 mila. Ai quali si aggiunsero i 27 mila posti tagliati nelle società a partecipazione statale. In questi ultimi 15 anni, Roma perde buona parte del suo potere economico. Oggi i destini delle autostrade si decidono a Ponzano Veneto, quelli dei telefoni e dell’acciaio a Milano. Roma non ha più una banca: l’Imi è sparita in Intesa Sanpaolo, la Bnl è una rete di vendita di Bnp Paribas e Capitalia sarà colonizzata da Unicredito. L’aeroporto di Fiumicino paga con la contrazione degli investimenti la privatizzazione a debito. Veltroni ha partecipato alle contese finanziarie, ma per via indiretta. Nel 1999, intervenne a favore della legge Draghi che il governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, subordinava alle Istruzioni di Vigilanza per tagliare la strada alle Opa di Unicredito su Comit e di Sanpaolo su Banca di Roma. L’anno dopo contribuì a bloccare i disegni di privatizzazione della Rai di D’Alema. Nel 2005, sull’affare Unipol-Bnl, incassò la reprimenda di Giovanni Consorte. In seguito, ha sostenuto Matteo Arpe in Capitalia, immaginando che dal giovane banchiere potesse venire un futuro per la banca romana. Nel mondo dei Ds, simili posizioni, Rai a parte, sono minoritarie, ma è sulle sconfitte interne che, fuori, Veltroni può edificare la sua novità. Che, tuttavia, sarebbe poca cosa se Roma non avesse recuperato passando, in 10 anni, dal 14° all’ottavo posto per valore aggiunto pro capite in Italia e portando il tasso di occupazione al 61% contro una media nazionale del 58%. Veltroni cavalca la trasformazione postmoderna di una città che non ha mai sperimentato l’egemonia modernista dell’industria, anche se la manifattura e le costruzioni occupano 255 mila persone, l’high tech e l’audiovisivo sono in fase di sviluppo, e il terziario avanzato impiega 127 mila addetti, l’85% in più rispetto al 1991. Il Campidoglio non ha inseguito il sogno della metropoli globale che compete a tutto campo con New York, Tokio, Londra e Parigi. Roma è un brand mondiale per la religione, un po’per la politica. E ora anche per la cultura, che Veltroni, vicepremier nel primo governo Prodi, ha reimpostato come industria del tempo libero di qualità. Dai musei al Parco della Musica (che si autofinanzia al 60% contro il 45% del Barbican di Londra), le veltronomics hanno innescato una politica dell’offerta che attira negli alberghi romani oltre 21 milioni di presenze, per due terzi straniere, e nei musei 12, 8 milioni di visitatori, il doppio rispetto al 1993. Sono solidi questi successi o, dopo la Milano degli anni Ottanta, abbiamo ora una ‟Roma da bere”? E’ difficile dirlo in mancanza di studi comparati tra le economie delle capitali. Certo è che i successi non nascondono ciò che la politica dell’inclusione non ha ancora risolto: dai trasporti urbani impossibili all’ordine pubblico il cui degrado fa scendere Roma dal 19° al 23° posto nel rapporto sulla qualità della vita del ‟Sole 24 Ore”.

Massimo Mucchetti

Massimo Mucchetti (Brescia, 1953) è oggi senatore della Repubblica. Ha lavorato al “Corriere della Sera” dal 2004 al 2013. In precedenza, era stato a “l’Espresso” per diciassette anni. E prima …