Guido Piccoli: Ingrid dei miracoli

07 Luglio 2008
‟Un'operativo da film” ha dichiarato raggiante il ministro della difesa colombiano, Juan Manuel Santos. La storia della liberazione di Ingrid Betancourt, dei tre agenti statunitensi e di undici militari colombiani sembra effettivamente scritta a Hollywood.
Da una parte, i buoni: quindici Rambo incaricati di una missione ‟audace, pericolosa e senza ritorno”, secondo il racconto del comandante dell'esercito, Mario Montoya. Due in particolare, capaci d'infiltrarsi nel territorio nemico e di guadagnarsi la fiducia dei guerriglieri. ‟Devi concentrare i prigionieri da mandare a colloquio col segretario Alfonso Cano” dicono al quarantanovenne Gerardo Antonio Aguilar, alias Cesár (messo a loro guardia direttamente dal Mono Jojoy, il capo militare delle Farc).
Dall'altra parte i cattivi, e anche gonzi. Primo fra tutti proprio Cesár, che casca nella trappola e fa arrivare in un punto della selva, dalle parti di Tomachipán, nel Guaviare, all'ora stabilita i sequestrati. E, come in tutti i film, ci sono i ‟normali”, che stanno nel mezzo. Parla la Betancourt: ‟Dopo la sveglia, ci hanno ordinato di fare i bagagli. Ci hanno detto che saremmo andati da un capo delle Farc. Quando sono atterrati gli elicotteri, ho visto sbarcare dei personaggi assolutamente surrealisti. Avevano degli stemmi di qualche ong sconosciuta. Mi sono chiesta chi fossero. Ho pensato che non volevo prestarmi a qualche nuova pagliacciata. Avvicinandomi, ho notato che qualcuno aveva delle magliette con la faccia di Che Guevara, e ho pensato che fosse gente delle Farc. Prima di farci salire con due comandanti guerriglieri, ci hanno incatenato le mani e le caviglie. Ero furibonda. Poi, è successo l'incredibile. In pieno volo, d'un tratto ho visto il comandante Cesár, che per tanti anni è stato il nostro guardiano, steso, legato e con una benda sugli occhi. Subito dopo il capo del commando ci ha detto: Siamo l'esercito colombiano, siete liberi! L'elicottero quasi cascava, per i salti di gioia e per gli abbracci che ci siamo scambiati!”.
Un finale perfetto, a sorpresa, col Bene che vince sul Male. E, dulcis in fundo, la protagonista, Ingrid Betancourt che ringrazia commossa, davanti alle televisioni di tutto il mondo, il capo dei duri, il presidente ‟dal pugno di ferro e al cuore grande”, Alvaro Uribe Vélez, ‟el gran ganador”, il grande vincitore di questa storia. Come quelle colombiane, una storia straordinaria, eccessiva e incredibile. Proprio come un film. Tutto vero? Fino a ieri sera, per il mondo è circolata solo la versione dei ‟buoni”, e furbi. Quella dei ‟cattivi” ci metterà giorni, forse settimane o mesi prima di essere resa pubblica (ricordando, ad esempio, i tempi sovietici che sono stati loro necessari per dare l'annuncio della morte di Tirofijo). Alcuni dubbi emergono dalla semplice lettura dei giornali colombiani. Il primo: il ruolo avuto nella vicenda dagli altri governi. Usa e Israele, innanzitutto, che da tempo forniscono tecnologia e intelligence e che probabilmente hanno partecipato all'azione di martedi scorso. Mentre Santos ha giurato che ‟è al cento per cento colombiana”, l'ambasciatore a Bogotà, William Brownfield, ha ammesso ‟una cooperazione molto stretta, con scambio di informazioni, di strumentazione e di esperienze” e il New York Times, citando fonti del Pentagono, ha scritto di una partecipazione diretta statunitense nel blitz. Ma ancora più incerto e importante è il ruolo avuto dalla Francia e la Svizzera. Lunedì scorso, era circolata la voce che due loro delegati, il francese Noel Saenz e lo svizzero Jean Pierre Gontard, fossero entrati in contatto proprio con Alfonso Cano. Sul quotidiano governativo El Tiempo si assicurava che i due ‟godono di tutte le garanzie del Palacio Nariño per un incontro positivo”. Strana disponibilita! Ieri, la smentita militare: ‟Era una montatura per preparare la trappola in atto”. Viene da chiedersi se fatta con l'assenso di Parigi e Berna. Ma c'è un'altra possibilità: la liberazione di Ingrid e degli altri potrebbe essere stata effettivamente stabilita tra le Farc e i mediatori internazionali e, all'ultimo momento, l'esercito potrebbe essersi fiondato in zona per prendersene il merito. Proprio come ha fatto altre volte, con risultati tragici. La parola ai due europei. In Colombia, e in particolare in quella di Uribe, comunque tutto è posibile.
Se invece fosse vera la versione governativa (al momento la più diffusa), altri dubbi nascerebbero dalla figura del comandante Cesár che, guarda caso, è stato anche il regista dell'assurda vicenda natalizia del piccolo Emmanuel, che le Farc proposero di liberare senza averlo nelle loro mani (perché proprio Cesár l'aveva consegnato ad un contadino della zona): se errare è umano, perseverare non è diabolico? Oltretutto, la fidanzata di Cesár sarebbe da tre mesi nei bunker della polizia presidenziale, Das. E' quindi probabile che la liberazione di Ingrid non sia soltanto il frutto di coraggio, pianificazione e furbizia, ma anche di violenza d'altro tipo, corruzione e ricatti personali. Ma si sa: nelle guerre moderne (e ancora di più in un conflitto irregolare e imbarbarito come quello colombiano) il fine giustifica ogni mezzo. Anche le favole, da raccontare ad un comandante, magari solo sprovveduto, o all'opinione pubblica, facilmente condizionabile.
Contano i risultati. E quello ottenuto a Tomachipán è netto, indiscutibile, quasi inesorabile. Nel momento della sua maggiore debolezza, a causa dello scandalo inarrestabile della parapolitica (nonostante siano stati estradati negli Usa i capi paras, diventati scomodi testimoni) e a causa dell'impossibilità di piegare la magistratura ancora indipendente (che ha messo recentemente in dubbio la legittimità della sua presidenza), Alvaro Uribe si è fatto forte, fortissimo, grazie alla maggiore debolezza del suo nemico dichiarato, le Farc. E' da alcuni mesi che la guerriglia riceve colpi che, senza essere mortali come proclama la propaganda governativa, la feriscono profondamente. Se è vero che la liberazione della Betancourt e degli altri prigionieri di guerra (i tre gringos e gli undici ufficiali e sottufficiali dell'esercito e della polizia) è stata salutata con gioia dalla grande maggioranza dei colombiani e nel mondo per rappresentare la fine di una crudeltà ingiustificabile, è altrettanto vero che non possa che essere accolta con disperazione dalle centinaia di ribelli, che vivono ammassati in condizioni probabilmente peggiori nelle carceri nazionali, e da Simón Trinidad, Sonia e gli altri guerriglieri, sepolti vivi nelle terribili Guantanamo sparse negli Usa.
Quanto accaduto è comunque il segnale della vulnerabilità organizzativa, militare (e quindi politica) delle Farc che, fino all'anno scorso, apparivano un'organizzazione disciplinata e quasi impenetrabile. Pur contando ancora su decine di fronti sparsi in buona parte del territorio nazionale, la guerriglia sconta l'impossibilità di una sicura comunicazione interna (lo stesso comandante Cesár, secondo la versione governativa, non avrebbe chiesto conferma ai suoi superiori dell'ordine di evacuazione dei sequestrati, per il timore di essere individuato dai satelliti spia nemici).
Ma, al di là della soddisfazione immediata e delle frasi di circostanza, il successo del blitz di martedì scorso è visto con preoccupazione anche dall'intera opposizione colombiana. ‟Il presidente può scegliere se perpetrarsi al potere, visto che non avrà contendenti a farsi rieleggere, o terminare il suo secondo mandato e passare alla storia come l'uomo che ha sconfitto le Farc” ha dichiarato Gustavo Petro, il più probabile candidato del Polo Alternativo Democratico alle elezioni del 2010. Molti altri politici e intellettuali prevedono un clima di caccia alle streghe contro tutti gli oppositori di Uribe. In realtà, l'unica speranza di bloccare il suo populismo dittatoriale (altro che Chavez) risiede proprio in Ingrid Betancourt. ‟Voglio servire il mio paese, magari anche da presidente” ha detto appena liberata. Nel clima euforico di mercoledì, in Colombia non l'hanno presa molto sul serio. Sicuro che Uribe, comunque, non l'abbia presa a ridere.

Guido Piccoli

Guido Piccoli, giornalista e sceneggiatore, ha vissuto a Bogotá gli anni più caldi della "guerra ai narcos". Sulla Colombia ha scritto la biografia di Escobar, Pablo e gli altri (Ega …