Marco D'Eramo: Così una canzone infiammò il nuovo Sudafrica

27 Giugno 2002
E' Ama-Ndiya ("Indiani") il titolo della canzone che sta scatenando un putiferio in Africa del Sud e ha costretto ha intervenire persino Nelson Mandela. La canzone consiste in un attacco pesantissimo contro gli indiani d'Africa, discendenti di quei lavoratori che tra l'800 e l'inizio del `900 gli inglesi portarono dall'India in nel Continente nero per lavorare nelle loro fattorie e costruire le loro ferrovie. "Oh miei fratelli compagni, abbiamo bisogno di gente forte e coraggiosa per affrontare gli indiani", dice uno dei versi della canzone scritta dal commediografo, impresario e paroliere Mbongeni Ngema: qui "noi" significa "noi neri". E, almeno a stare a quei versi che ho potuto collazionare dalla stampa sudafricana (Mail&Guardian, The Star, The Independent), Ngema rincara la dose: "La situazione è difficile. Gli indiani hanno conquistato Durban. Noi siamo poveri perché ogni cosa ci è stata presa dagli indiani. Continuano ad arrivare e affollano i nostri aeroporti. Ci stanno opprimendo. Noi ci battiamo così tanto qui a Durban, perché siamo stati espropriati dagli indiani che stanno sopprimendo il nostro popolo. Gli indiani non vogliono cambiare. Neanche Mandela è riuscito a convincerli. Era meglio con i bianchi. Allora sapevamo che era un conflitto razziale".
A dare peso alla canzone contribuisce certo la figura del suo autore. Ngema è infatti il più famoso artista nero sudafricano. Ha prodotto i musical di successo Township fever (1995), Sarafina! (1995) e Woza Albert! (1998). Ha alle spalle un glorioso passato di lotta antiapartheid, cui ha contribuito con le sue canzoni, ma anche la partecipazione al primo scandalo di regime dell'African national congress (Anc) dal 1996 al 1998.
La canzone è uscita in marzo e ha subito suscitato un'iradidio. I membri della comunità indiana l'hanno accusata di fomentare l'odio razziale e hanno chiesto che fosse bandita dalle trasmissioni radio-tv e ritirata dai negozi.
In Sudafrica i discendenti degli indiani costituiscono il 2,6% dei 44 milioni di abitanti, sono cioè 1,2 milioni, ma la grandissima maggioranza è concentrata nel Natal e in particolare nell'area metropolitana di Durban. Dal 1815 gli inglesi cominciarono a importare indiani in Africa orientale dall'isola Mauritius per allevare bachi da seta. Dopo il 1834, li importarono per costruire strade e lavorare nelle piantagioni. Dopo il 1888, quando le furono garantite patenti reali, la British Imperial East African Company cominciò a importare indiani per la costruzione delle ferrovie, soprattutto dalle regioni più povere del subcontinente, Bihar, Uttar Pradesh, Tamil Nadu: la politica era d'importare 40 donne ogni 100 uomini. Ma quasi tutti i lavoratori (quattro su cinque) preferirono tornare in India (questi dati sono tratti dalla voce "Indian Communities in Africa" dell'enciclopedia Africana curata da Kwame Anthony Appiah e Henry Louis Gates, Jr.). Furono altri gli indiani che restarono in Africa e fondarono comunità, furono i mercanti (hindu, musulmani, sikh e cristiani) provenienti soprattutto dal Gujarat, dal Punjab e dall'enclave di Goa.
Gli inglesi fecero degli indiani ciò che i francesi stavano facendo dei loro "libanesi", gli intermediari del dominio coloniale, la classe mercantile, di commercianti, bottegai e usurai che subiva minori restrizioni rispetto ai locali. I libanesi erano per esempio gli unici ad avere un passaporto che permetteva loro di viaggiare in tutte le colonie francesi. Ma così facendo i francesi posero i libanesi, e gli inglesi posero gli indiani, in una situazione scomoda. Come nell'Africa francese "libanese", così in quella inglese "indiano" diventò ciò che era stato "ebreo" nell'Europa medievale, una comunità coesa di commercianti, gioiellieri, prestatori a pegni, micro-banchieri, vissuta come estranea e sottoposta a periodiche angherie. Come gli ebrei nel medioevo europeo, così libanesi e indiani subirono pogrom, persecuzioni, incendi e saccheggi dei negozi, e divennero, dopo le indipendenze africane, facile capro espiatorio in varie sommosse popolari.
Così, a Dakar, nel 1968 la borghesia d'affari locale chiese allo stato di proteggere le "imprese interamente senegalesi" contro - in particolare - le ditte siriano-libanesi. In Costa d'Avorio l'ostilità contro i libanesi è scoppiata in parecchie violenze durante gli anni `80. Negli anni `60 la Tanzania nazionalizzò banche e ditte commerciali che valevano più di 5,830 sterline. La popolazione asiatica scese perciò da 88.000 nel 1961 a 52.000 dieci anni dopo. In Kenya vi furono restrizioni alla libertà di movimento degli asiatici. Nel 1968 in Zambia il presidente Kenneth Kaunda proibì ai non cittadini di esercitare il commercio. In Uganda il presidente Milton Obote pose tali restrizioni alla libertà degli indiani che il loro numero crollò del 35%, finché nel 1971 prese il potere il dittatore Amin Dada che nel 1972 espulse tutti gli indiani dal paese, benché fossero titolari di un passaporto britannico in quanto cittadini del Commonwealth: ma scoprirono allora che il loro passaporto britannico non valeva niente perché le autorità inglesi li respinsero alla frontiera. Lo stato d'anima degli indiani in quell'epoca è descritto in modo straordinario da W.S. Naipaul nel suo forse più bel romanzo, "Alla curva del fiume" (1979, tr. it. Rizzoli 1982). Personalmente, fu assai comica la mia prima esperienza delle disparità tra indiani e neri in Africa: saltava infatti agli occhi che la maggior parte degli indiani (e delle indiane) erano occhialuti, mentre nessun nero portava lenti. La mia prima, sciocca reazione fu di pensare "Quanto ci vedono bene i neri e quanto ci vedono male gli indiani!", prima di rendermi conto che un paio di lenti costavano sei mesi di stipendio di un nero. Non avevo mai pensato agli occhiali come a simboli di appartenenza di classe.
In Sudafrica l'importazione di mano d'opera indiana seguì la parabola dell'Africa orientale, ma si concentrò in Natal perché li vi governavano gli inglesi, tanto che nel 1904 in questa regione gli indiani erano più numerosi dei bianchi.
Ma, diversamente dall'Africa orientale, in Sudafrica gli indiani parteciparono alla lotta anticoloniale, grazie a uno di quegli immigrati, un certo avvocato Mohandas Gandhi che proprio a Durban insegnò la sathyagraha, la resistenza non violenta, e che nel 1894 divenne primo segretario del Natal Indian Congress (Nic). La partecipazione indiana alla lotta anticoloniale e anti-apartheid è durata fino alla vittoria dell'African national congress, nonostante la politica del divide et impera messa in opera dai bianchi, che portò per esempio ai disordini razziali neri-indiani nel 1949: ai neri era permessa una migliore istruzione, era consentito avere imprese, anche se era negato loro il diritto di voto e se dovevano vivere in aree segregate. Ma con la fine dell'apartheid, nonostante il contributo indiano alla lotta di liberazione, le tensioni tra i due gruppi sono cresciute, anche se oggi gli indiani detengono quattro importanti ministeri nel gabinetto del presidente Thabo Mbeki.
Nella società post-apartheid sta esplodendo un multi-razzismo di tipo nuovo: c'è un razzismo dei neri sudafricani contro i neri immigrati dagli altri paesi del Continente nero, un'ondata di milioni di umani che i neri sudafricani rendono responsabili di tutti i mali del proprio paese, a cominciare dalla criminalità dilagante (questa l'avevamo già sentita); e poi un razzismo anti-indiano, davvero simile all'antisemitismo europeo con le accuse di usura, avarizia, accaparramento, tanto da spingere gli indiani su posizioni di razzismo anti-nero: e infatti l'elettorato indiano ha spostato i propri voti dall'Anc al conservatore National Party.
È su questo sfondo di tensioni crescenti e speranze non mantenute che s'inserisce la canzone Ama-Ndiya. A maggio, un deputato Anc,

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …