Umberto Galimberti: Non mi piace e non lo vedo

06 Settembre 2002
I mezzi di informazione che ci fanno conoscere, come mai prima era accaduto, quel che succede nel mondo, ci hanno messo nelle condizioni di praticare un nuovo vizio, che rischia di passare inosservato perché molto diffuso, senza che la sua diffusione diminuisca di un grammo la sua tragicità. Questo vizio è il "diniego" che consiste nel negare, nelle forme più svariate e ipocrite, l´esistenza di ciò che esiste e per giunta si conosce. È un vizio antico come tutti gli altri, ma i mezzi di informazione l´hanno reso esponenziale. E´ soprattutto difficile da riconoscere perché il diniego assume forme così camuffate e per giunta così diffuse da risultare praticamente irriconoscibile.
Basta prestare attenzione ad alcune espressioni o frasi comuni quali: "chiudere un occhio", "distogliere lo sguardo", "guardare dall´altra parte", "mettere la testa sotto la sabbia", "non sollevare la polvere", "fare lo struzzo", "lavare i panni sporchi in casa propria", "dire una mezza verità", per renderci conto quanto le forme di diniego siano diffuse, e quanto devastanti siano gli effetti, nel mondo privato e in quello pubblico, di questo atteggiamento che nega ciò che esiste e si conosce.
Sull´argomento c´è oggi un libro bellissimo che ha per titolo Stati di negazione di Stanley Cohen (Carocci, Firenze, pagg. 400, euro 20,20) professore di Sociologia alla London School of Economics and Political Science. L´autore ricorda che negli anni '50, quando a dodici anni viveva a Johannesburg in Sudafrica, una notte d´inverno, mentre scivolava nel suo letto iperriscaldato con lenzuola di flanella e piumino ben imbottito, prese a riflettere perché lui era dentro al caldo e invece un nero adulto fosse fuori al freddo strofinandosi le mani per riscaldarsi, con il bavero del cappotto rialzato. L´indomani chiese alla madre quale fosse il paese d´origine di quell´uomo nero, dove fossero sua moglie e i suoi figli, e soprattutto perché dormiva fuori al freddo. La risposta della madre fu che Stanley, il suo bambino, "era troppo sensibile".
La cosa finì lì. Ma qualche anno dopo il ricordo riemerse, e Stanley, ormai studente di sociologia a Oxford, incominciò a chiedersi: "Ma i miei genitori vedevano quello che io vedevo o vivevano in un altro universo percettivo, dove spesso gli orrori dell´apartheid erano invisibili e la presenza fisica della gente di colore sfuggiva alla loro consapevolezza? Oppure vedevano esattamente ciò che vedevo io, ma semplicemente non gliene importava nulla o non ci trovavano niente di sbagliato?".
Fu così che nella mente di Stanley si fece strada l´idea di costruire una "sociologia del diniego" per arrivare a capire cosa facciamo della nostra conoscenza della sofferenza altrui, e soprattutto cosa fa a noi questa conoscenza. Quale meccanismo induce la gente a negare come se non sapesse quello che sa? Non c´è in questo mancato "riconoscimento", che è l´esatto contrario del "diniego", la prima radice, e se vogliamo la più profonda, dell´immoralità collettiva?
Nel 1980 Stanley Cohen, con la sua famiglia, lascia l´Inghilterra per andare a vivere in Israele, dove, con Daphna Golan, direttrice delle ricerche dell´organizzazione israeliana per i diritti umani, B´Ttselem, comincia a lavorare a un progetto di ricerca sulle presunte torture inflitte ai prigionieri palestinesi. Il risultato fu quello di sbattere la faccia contro la politica del diniego che però consentì a Stanley di individuare le variegate figure che vanno dal "diniego assoluto" (non succede) al "discredito" (i palestinesi sono manipolati e invasati) alla "definizione errata" (è vero, succede effettivamente qualcosa, ma non è tortura), al "giustificazionismo" (è vero, non c´è altro da fare finché non si trova una soluzione politica).
Nonostante le censure, la ricerca ebbe una risonanza nei media. Un tabù, come la tortura dei palestinesi da parte degli israeliani, divenne oggetto di discussione. Poi calò l´interesse del pubblico e la tortura non fece più notizia, cosa assai peggiore che non essere nelle notizie. Il diniego, che all´origine era solo del potere politico, passò, nelle forme variegate sopra descritte, alla sensibilità della gente comune, non nella forma cinica e brutale di chi mente, ma in quella più morbida di chi non sa o finge di non sapere come vanno davvero le cose, o che comunque ritiene che non sia di sua competenza intervenire.
Congediamoci dalla biografia di Stanley Cohen e domandiamoci: come reagiamo quando al mattino leggiamo nelle pagine degli esteri dei nostri giornali le atrocità perpetrate a Timor Est, in Uganda, in Ruanda o in Guatemala? Che atteggiamento assumiamo di fronte alle immagini televisive che ci fanno vedere profughi in fuga dai loro paesi per fame o per ragioni politiche, bambini africani che muoiono di fame o di Aids, cadaveri nei fiumi, volti contorti nello strazio e nella disperazione?
Spesso decidiamo consciamente di evitare queste informazioni, qualche volta non sappiamo neppure quanto escludiamo e quanto accettiamo. Il più delle volte assorbiamo tutto e restiamo passivi. E se il diniego politico è cinico, calcolato ed evidente, il nostro diniego, quello che si muove tra consapevolezza e inconsapevolezza, è disastroso, perché toglie ogni speranza a una possibile reazione e inversione del corso degli eventi.
Tra il 1915 e il 1917 un milione e mezzo di armeni sono stati massacrati dai turchi o sono morti durante la deportazione. Nonostante i fatti furono minuziosamente riferiti dai documenti ufficiali e dalle testimonianze dei sopravvissuti, ci vollero ottant´anni perché alcuni governi europei riconoscessero il genocidio, ancora non riconosciuto dagli Stati Uniti, da Israele e naturalmente dalla Turchia.
Vent´anni dopo in Germania venivano sterminati nei vari campi di concentramento milioni di ebrei, zingari e omosessuali. Lo storico americano Gordon Horwitz ha intervistato le persone che vivevano intorno a Mathausen. Molti degli intervistati hanno risposto che vedevano dei fumi e sentivano delle dicerie su quanto accadeva in quel campo. Nessuno cercò di mettere assieme le notizie o di informarsi su quanto stava accadendo. Qui il diniego assume la forma laconica dell´indifferenza.
Per catturare Bin Laden gli americani e i loro alleati hanno ammazzato cinquemila afgani civili, non importa se uomini, donne, bambini. Erano innocenti tanto quanto le vittime americane delle due Torri. Qui il diniego si manifesta con una frase che è girata ovunque come un dettato ipnotico che tranquillizzava tutte le coscienze. La frase è: "Mi dispiace per la popolazione innocente, ma ci voleva una risposta". Niente impediva che al posto di questa frase ce ne ponessimo un´altra: "Siamo disposti a uccidere cinquemila innocenti pur di catturare Bin Laden?".
Il linguaggio è un grande alleato del diniego che può essere "letterale": "non è successo niente", "non c´è stato alcun massacro", "non sarebbe potuto succedere senza che noi lo sapessimo"; "interpretativo" per cui la pulizia etnica si chiama "scambio di popolazioni", un massacro civile "danno collaterale", una deportazione "trasferimento di popolazione", una tortura "pressione fisica". Oppure, ed è il più diffuso, il diniego può essere "implicito" e ciò avviene quando non si negano i fatti, si esclude solo che questi fatti interpellino proprio noi.
I bambini che muoiono di fame in Somalia, gli stupri di massa delle donne in Bosnia, i massacri di Timor Est, i senza tetto delle nostre strade sono fatti riconosciuti, ma non sono percepiti come un elemento di disturbo psicologico o carichi di un imperativo morale ad agire. Il diniego "implicito" che qui scatta è lo stesso per cui, di fronte a un incidente stradale, i testimoni si dileguano, perché "il fatto non ha niente a che fare con loro", perché "ci penserà qualcun altro".
Se abbandoniamo il grande scenario della storia, per entrare nella sfera più ristretta della nostra vita privata, il diniego dilaga in tutte le sue forme in maniera insospettata. I membri della famiglia hanno una capacità sorprendente di ignorare o fingere di ignorare che cosa accade davanti ai loro occhi, sia esso abuso sessuale, violenza, alcolismo, follia o semplice infelicità. Esiste un livello sotterraneo dove tutti sanno quello che sta succedendo, ma in superficie si mantiene un atteggiamento di assoluta normalità, quasi una regola di gruppo che impegna tutti a negare ciò che esiste.
Qui il diniego è il primo adattamento della famiglia alla devastazione causata da un membro, sia esso alcolista, o drogato, o pedofilo, o violento, o folle, o dedito a traffici illeciti. La sua presenza deve essere negata, ignorata, sfuggita o spiegata come qualcos´altro, altrimenti si rischia di tradire la famiglia. E così finiamo con il sostituire alla responsabilità, alla sensibilità morale, alla compassione, al senso civico, al coraggio, all´altruismo, al senso della comunità, l´indifferenza, l´ottundimento emotivo, la desensibilizzazione, la freddezza, l´alienazione, l´apatia, l´anomia e alla fine la solitudine di tutti nella vita della città.
Contro il diniego, non dobbiamo invocare la "verità", che talvolta nemmeno a noi stessi possiamo ammettere, ma la "responsabilità" di fronte a quel che sappiamo, perché in caso diverso diventiamo irrimediabilmente immorali, a colpi di diniego.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …